Dopo il travolgente successo a Broadway il musical Il colore viola arriva sul grande schermo, a quasi quarant’anni dal primo libero adattamento del romanzo Premio Pulitzer di Alice Walker interpretato da Whoopi Goldberg – che torna in un cammeo iniziale nel ruolo di levatrice – e diretto da Steven Spielberg qui, come nella versione teatrale, produttore con Quincy Jones e Ophra Winfrey.
Se la trasposizione musicale di Marsha Norman appare di per sé coraggiosa nel confrontarsi con un testo essenziale della cultura americana contemporanea che ha contribuito, assieme alle opere di Toni Morrison, a ridefinire il ruolo femminile nero nell’immaginario letterario nazionale, non da meno è il lavoro di Blitz Bazawule, regista ghanese qui al suo terzo lungometraggio dopo l’interessante Black Is King co-diretto con Beyoncé.
Il musical è da sempre il genere per eccellenza dell’elegia statunitense. Più del western, questo cinema ha saputo raccontare il fascino e l’entusiasmo dell’essere americani, usi e costumi, valori, ideologia e canoni estetici di quell’american way of life che ha fatto del sogno bianco a stelle e strisce la sua rappresentazione idilliaca, promessa attesa e regolarmente mantenuta a chiunque ne condividesse lo spirito.
Ecco dunque che un musical black appare insolito – solo Spike Lee aveva tentato tanto con Aule turbolente – ancor di più considerando il soggetto de Il colore viola, storia di lenta e graduale emancipazione della giovane Celine nella Georgia di inizio Novecento, vittima prima di abusi da parte del padre poi di violenze dal marito, che trova conforto e riscatto nella fede e nelle figure di Shug e Sofia, donne forti e indipendenti che la guideranno a una nuova concezione di sé.
A ben guardare, l’acclamatissimo lavoro di Bazawule (secondo più alto incasso americano di tutti i tempi per un film uscito il giorno di Natale, premiato e nominato ai più prestigiosi festival nazionali e candidato all’Oscar per la Miglior Attrice non protagonista) pare la sintesi perfetta tra due delle più significative istanze sociali e culturali di oggi a livello locale e non solo.
In tempi in cui #BlackLivesMatter è più che mai attivo – pur se passato in secondo piano per le tese relazioni internazionali tra America e Medio Oriente – con il suo processo di rinnovamento intellettuale legato all’identità nera attraverso attivismo politico, arti e intrattenimento e una nuova ondata femminista sta rilanciando i temi del movimento nel nuovo ma in fondo invariato sistema globale, Il colore viola risulta più di un coraggioso remake di un celebre film.
Ma il suo valore va rintracciato al di fuori dell’opera, nel contesto in cui è realizzato e di cui si fa testimone e narratore, come per il nostrano C’è ancora domani, che ha saputo abilmente catalizzare dinamiche simili in una forma di evidente successo, pur se forse eccessivamente celebrato.
Se sulla carta l’operazione di Bazawule appare vincente nell’unire impegno e spettacolo, a ben guardare pare evidente che il risultato finale, pur se accattivante, mostri palesi debolezze. Riprendendo impianto, alcune delle attrici principali e canzoni dal musical, come la struttura da melò dal film del 1985, Bazawule scivola in alcuni cliché in relazione proprio alla questione afroamericana che vengono a minarne il lodevole intento.
I pur notevoli numeri musicali, che diretti con maestria sottolineano e alleggeriscono i momenti più delicati del racconto, ripropongono di fatto un tradizionale immaginario legato all’afroamericano che la nuova produzione black sta cercando tenacemente di smantellare. Jazz e blues associati a neri dissoluti e lussuriosi, work songs su massacranti lavori di massaie, operai e chain gang, così come stucchevoli inni sacri ad alleviare pene interiori, tutti interpretati con sorrisi, mossette e gridolini è quanto di più stereotipato Hollywood continui testardamente a proporre.
Un immagine di “buon selvaggio” che non può che suscitare in fondo simpatia e tenerezza, in virtù della sua ingenuità che nonostante tutto gli fa vedere un futuro roseo senza eccessive preoccupazioni. Il dolore nero, ogni suo problema, è allora sempre passeggero, qualcosa di alleviabile con sesso, alcol o una canzone metafora della propria condizione.
Non diversa è la rappresentazione dei ruoli di genere, critica già sollevata ai tempi del romanzo e del film di Spielberg. Se gli uomini appaiono tutti inetti, violenti e brutali, le donne sono vittime (Celine), ribelli e perciò sconfitte (Sofia) o libidinose ammaliatrici (Shug), anche queste ricorrenti immagini dell’iconografia statunitense legata agli afroamericani che rendono ancora oggi Il colore viola un’opera lodevole per l’intento di edificante racconto di emancipazione e sorellanza, ma discutibile per le sue dinamiche interne.