È il 1970 quando Orson Welles si mette al lavoro per realizzare uno dei progetti più travagliati della sua carriera. Quel The Other Side of the Wind rimasto incompiuto e finalizzato solamente pochi anni fa, quando nel 2018 venne presentato in anteprima proprio qui alla Mostra del cinema di Venezia. Un’opera colossale che vedeva tra gli altri anche la comparsa di un giovane Dennis Hopper, allora reduce dal clamoroso esordio registico con Easy Rider ed in procinto di realizzare il suo secondo lungometraggio Fuga da Hollywood. Accade così che questi due personaggi in grado di contaminare e rivoluzionare il modo di fare cinema nei periodi successivi ai rispettivi esordi, finiscono per incontrarsi una sera in quel di Beverly Hills.

Ciò che ne consegue è un’appassionante chiacchierata arricchita dai punti di vista di entrambi riguardo ai temi più disparati, non solo aventi per oggetto il cinema ma in grado di snodarsi attraverso le zone più intime della loro personalità. Una conversazione i cui pesi sono però tutt’altro che equilibrati, con il precursore della cosiddetta New Hollywood costantemente inquadrato e incalzato dalle reiterate interruzioni da parte dell’autore di Quarto Potere, che si mantiene in un confortevole fuori campo e anima la scena solamente con il timbro grave della sua voce. Le macchine da presa che si trovano nella stanza indugiano quindi sul volto irsuto di un Hopper che, tra un sorso di Gin tonic ed un tiro di sigaretta, reagisce pacatamente agli incalzanti stimoli del suo anfitrione.

Ne scaturisce un dialogo tra due figure emblematiche nell’industria cinematografica del proprio tempo, alla stregua dei più formali confronti tra Francois Truffaut ed Alfred Hitchcock o la più recente intervista di Olivier Assayas ad Ingmar Berman, ma con una fondamentale differenza: in questo caso non è il giovane baldanzoso che interroga il Maestro rivestendo i propri quesiti di una papabile ammirazione, ma bensì il navigato autore che dall’alto della sua levatura culturale trova un perverso piacere a problematizzare le affermazioni dell’esordiente. Il ritratto che traspare è quello di un Orson Welles disilluso, pesantemente inaridito dalle diatribe produttive che hanno accompagnato gran parte della sua mirabile produzione, contrapposto all’ingenua spensieratezza di Hopper, stella in ascesa che ancora conserva l’illusione di poter cambiare il mondo con il potere della propria arte.

E proprio qui risiede uno degli snodi cruciali di Hopper/Welles, ovvero lo scontro tra due generazioni messe a confronto, due visioni del mondo non del tutto dissimili ma viziate dalle rispettive esperienze personali e quindi inevitabilmente difformi seppur complementari. L’esiguità formale viene compensata dall’inarrestabile successione di stimoli e dicotomie tematiche in una tenzone destinata rimanere irrisolta, ma capace di esercitare un’insondabile attrazione. La divergenza di sguardi si fa conflitto narrativo, continuo catalizzatore di attenzione e generatore di discorsi inconciliabili che si autoalimentano per diventare la materia primaria di cui si ciba la vorace presenza dello spettatore chiamato in causa.

L’interesse puramente intellettuale riferito ai contenuti attorno ai quali orbitano le parole dei personaggi, lascia ben presto spazio alla fascinazione voyeristica; il piacere di assistere al convergere di due universi affini ma anche inconciliabili e quindi perennemente in reazione l’uno con l’altro. Ancor più del suo valore in quanto reperto storico (già di per sé tutt’altro che trascurabile), Hopper/Welles sbalordisce perciò per la semplicità con cui riesce a riflettere sulle molteplici forme assumibili dall’affabulazione audiovisiva e sui modi talvolta insospettabili attraverso in cui essa riesca a rivelare la propria sconfinata efficacia.