Euridice ama suonare il pianoforte: quando lo fa – dice – “diventa invisibile”. Peccato capitale nella Rio de Janeiro degli anni ’50, dove si è donne solo per fare presenza e trasfigurarsi in docili statuine d’appartamento. Come la sua omonima mitologica, Euridice non è che un’ombra: solo la musica la può condurre fuori dagli inferi, in un vagheggiato altrove europeo – il conservatorio di Vienna – che ci parla piuttosto della condizione coloniale del Brasile, periferia di un impero che ha dimenticato i territori oltreoceano. Ironia della sorte, la vita borghese di Euridice finisce per rimanere ben visibile a tutti fuorché a Guida, amatissima sorella ripudiata dai genitori per una fuga d’amore finita male.
Euridice e Guida si adorano, si cercano, e dopo anni di lontananza trasformano il simulacro dell’altra in una voce interiore con cui misurare i propri fallimenti personali. Non sono due modelli antitetici di femminilità, la ragazza madre e la massaia oculata: sono piuttosto due disgraziate in carne e ossa, pulsanti di rabbia e rammarico, complementi oggetti di una violenza familiare inscritta nelle concezioni stesse di regola e decoro. Gli uomini, di contro, restano figurine sbiadite e inconsistenti, impercettibili come il sistema che ne sancisce il controllo assoluto sui corpi delle figlie, mogli e madri. Ma sono veri il sangue e il sudore, così come gli umori corporei che abitano le sequenze più brutali e dolorose, squarci di un cinema che sa essere tanto sottile quanto crudele. Il dramma della separazione si sfilaccia lungo i decenni, affonda nella tradizione del romanzo epistolare, alla ricerca delle parole con cui verbalizzare una frattura indicibile.
Il mélo di Karim Aïnouz non è mai addomesticato, e riecheggia di una densità sirkiana nei cromatismi saturi e sanguigni, o nell’immagine-climax di un pianoforte in fiamme. Il registro naturalistico si confonde con quello metafisico quando, in un incipit straordinario, il cielo gonfio di umidità della foresta brasiliana si tinge di rosso sangue, mentre le sorelle si smarriscono per la prima volta, e la grana grossa della pellicola dà piena mostra di sé. Ma quella natura lussureggiante è solo uno spazio interiore, un luogo dell’anima in cui poter finalmente gridare a pieni polmoni – come fa Euridice, dopo una prova pianistica maiuscola, rivolgendo la propria disperazione alle montagne ombrose di Rio de Janeiro. La vita vera, intanto, prosegue, negli appartamenti ordinati della classe media o nei tuguri delle ragazze madri abbandonate a loro stesse.