“Un pittore che racconta all’infinito i dati gli istanti, i punti, i pixel del proprio autoritratto, per non arrivare a compierlo”. Godard appare così a Enrico Ghezzi, inventore di Fuori Orario, contenitore cinematografico, che ospita da anni racconti di cinema d’autore in tarda notte sulla rete televisiva italiana. E come di un contenitore dove - a detta di Claude Chabrol - “ci stava tutto”, si può parlare della Nouvelle Vague, fenomeno cinematografico dove ciò che importa non è il messaggio, ma lo sguardo.
Jean-Luc Godard è l’anima “critica” della Nouvelle Vague. Disprezza e spazza regole registiche “garantite” dalla dosatura calcolata di ingredienti collaudati come una sceneggiatura predeterminata, la presenza di attori famosi, gli alti costi. Copia la vita che, a sua volta, copia dal vertiginoso citazionismo perenne nelle sue opere. A elencare tutta la sua opera cinematografica, si potrebbero davvero fare molte albe.
Le parole nei suoi film creano un cortocircuito continuo. Non leggono il mondo, lo vedono. Godard è lui stesso un cortocircuito. Rivela l’insofferenza nel restare entro i limiti prestabiliti della comunicazione e quando lo spazio dove opera “fa massa”, ecco che muore per rinascere con una nuova citazione, un nuovo gioco di parole, insomma, le sue armi migliori per minare il linguaggio stesso di cui fa uso. Contraccolpi, sbuffi e condanne interiori. Il cinema di Godard è fatto di inseguimenti, corse, rapine, frenesie collettive dei week-end, connessioni indissolubili fra amore e morte; è un cinema che vede nello spettatore un co-autore del film. “Non bisognerebbe descrivere le persone, ma descrivere quello che c’è fra di loro” dice Belmondo in Pierrot le fou, pellicola del 1965. Qui lo spettatore, non sta solo assistendo ad una semplice sequenza di un uomo e una donna che parlano in una stanza da letto, non rimane indifferente mentre sullo schermo una tazzina di caffe sta per essere semplicemente sorseggiata. Lo spettatore attraversa un avvenimento costituito da
altri avvenimenti nei quali, prima o poi, ci si imbatte.
Tutti si immergono nel mondo di Godard come un sub nel mondo acquatico. “Il cinema deve andare ovunque. Bisogna fare la lista dei luoghi dove non c'è ancora e farcelo arrivare”, ci ricorda l'autore franco-svizzero. Succede, quindi, che in un’isola del Sud Italia, priva di una sala cinematografica e di un teatro, un’isola che va in letargo sociale e in carenza di ossigeno culturale durante l’inverno, chi scrive, fa conoscenza con il mondo godardiano. Di quelle Due o tre cose che so di me, c’è che À bout de souffle mi ha fatto amare il cinema anche qui alle Eolie, dove vivo e dove, da tre anni, con i ragazzi di un’associazione proviamo a portarcelo, il cinema, usando la piazza come sala e i muri delle case come schermi. La corsa di Michel Poiccard/Belmondo, mentre viene inseguito dalla polizia e colpito da un proiettile e quella sua resistenza nel camminare perché ormai ferito in questo film manifesto che vidi per la prima volta a 17 anni, mi ha sempre fatto pensare che io e Michel avessimo qualcosa in comune.
Stavamo solo cercando la nostra ragione d’essere in due ambienti sempre più ripetitivi che assumono quasi la stessa rilevanza dei suoi personaggi: Poiccard muore, io come pietra pomice ho continuato a galleggiare. Si sa, cadere su di un’isola è in realtà una finta caduta: si sopravvive al mare galleggiando. L’altra cosa è che a Ginevra era un pomeriggio qualunque della settimana che segue la Pasqua e in Svizzera ci ero andata in vacanza per tutt’altre ragioni. Sapevo che a Rolle, piccolo comune che affaccia sul lago Lemano, viveva lui: Rue des Petites-Buttes. La mattinata comincia pigra e mantiene questo mood fino al primo pomeriggio, fino a quell’ultimo respiro che mi fa prendere quel treno alla ricerca di Godard.
Mi sentivo un po’ Agnès Varda in Visages Villages. Il cielo è incerto quanto la mia decisone di essere arrivata fin lì. Cammino senza aspettative per qualche minuto, il tempo di raggiungere l’indirizzo, riconosco la casa con la veranda bianca. Si salvi chi può (la vita): in un
secondo dalla porta della veranda si palesa un uomo sui novanta con un sigaro tra le mani e quella montatura di occhiali inconfondibile. Mi giro.
- “Jean-Luc?”, dico.
- “Oui”, mi risponde.
- “Ma...Godard?”
- “Oui, c’est moi!”
Non ci credo. Sorrido. Lui si avvicina, quasi tenero, nonostante il suo carattere notoriamente ritroso e ostico. Parliamo qualche minuto, con il mio francese che balbetta. Avrei voluto chiedergli tante cose, una fra tutte: “Fra il dolore il nulla, cosa sceglieresti?”.
Merci, Jean-Luc!
(Foto di Samantha Pegoraro)