La contemporaneità è l’era dell’autofiction. Nella letteratura (in cui il principe è Emmanuel Carrère, ma il genere è ora esploso anche in Italia: si vedano i recenti libri di Trevisan, Mari, Giartosio, …) così come nel cinema (sempre in Italia, di recente, si registra È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino e il ritorno al tema di uno, come Nanni Moretti, che prima degli anni Duemila l’aveva ampiamento esplorato).

Tuttavia, non sempre l’adesione al genere è realmente giustificata e spesso corre il rischio di inciampare nell’autocompiacimento e nell’autoreferenzialità. Non è il caso de Il tempo che ci vuole, l’ultimo film di Francesca Comencini, in cui, fin dalle prime sequenze, e dalle dichiarazioni rilasciate a margine dalla regista stessa, si comprende la necessità che soggiace alla storia e al suo farsi narrazione e immagine.

Comencini, superata la soglia dei sessant’anni, decide di fare i conti con una figura archetipica come quella del padre; in questo caso doppiamente pregnante: per ragioni biologiche, ma anche professionali e vocazionali, visto che Luigi Comencini, così come poi Francesca (autore e personaggio), è stato a sua volta regista. Il tempo che ci vuole è simultaneamente un omaggio alla figura paterna – pubblica e privata – e un’analisi a posteriori di una giovinezza difficile e di un rapporto famigliare totalizzante.

Se la prima parte del film mostra il regista Luigi Comencini alle prese con la sua notissima trasposizione de Le avventure di Pinocchio (1972) attraverso gli occhi della protagonista bambina e quindi con quella patina favolistica della storia per ragazzi che ha affascinato una pluralità di generazioni, nella seconda sezione i due personaggi entrano nella Storia. A comparire sullo schermo sono i difficili e complessi anni ’70 a Roma: quindi le rivolte studentesche, l’uso diffuso delle droghe e soprattutto gli anni di piombo con una politicizzazione totale della quotidianità che investe la vita di chi, come Francesca, si ritrova in quel momento a vivere la propria gioventù.

Il rapporto padre/figlia si fa quindi difficile, silenzioso, sofferto. Roma, dopo essere stata luminosa, diventa il luogo del baratro; Parigi è la rinascita. Nella capitale francese, infatti, prende vita il terzo e ultimo atto di una sceneggiatura solida e coerente che ha la forza di sostenere una storia che si regge soltanto su due personaggi. In uno dei consigli di regia che dispensa alla figlia, Luigi Comencini dice che «un film o sta in piedi o non sta in piedi», poi è il pubblico a decretare se sia bello o brutto. In questo senso, Fabrizio Gifuni e Romana Maggiora Vergano sono eccezionali, con le loro intense interpretazioni, a fare stare in piedi questo film.

I ricordi e le esperienze personali, prima di farsi prodotto artistico, hanno spesso bisogno di un lungo arco temporale per fermentare e trovare le parole e le immagini giuste per farsi racconto e storia potenzialmente universali. È quello che è accaduto a Francesca Comencini nella realizzazione di un film che è un atto d’amore verso il proprio padre. Infatti, oltre alla regia elegante e ordinata, a investire lo spettatore è una emozionalità potente che scaturisce da un sentimento profondo per una figura paterna caratterizzata dalla gentilezza e dalla bontà, due caratteristiche che, non casualmente, sono sempre rintracciabili nei film di Luigi Comencini. Per qualcuno potrà anche essere un difetto; per molti altri è un pregio sempre più fuorimoda.

Come detto, viene mostrato lo sguardo del regista – e in questo senso il film è anche un sentito omaggio al cinema: all’interno della storia sono disseminati numerosi frammenti dei film muti che Luigi Comencini aveva salvato dal macero e poi donato alla Cineteca di Milano e, in generale, ci sono diverse citazioni, esplicite e implicite, da maestri come Pabst, Rossellini e De Sica –, ma prima di tutto vengono mostrati i valori di un uomo che ha saputo crescere una figlia attraverso l’amore e assecondando i tempi della vita con i suoi fallimenti e le sue battute d’arresto.

Perché, come dice il protagonista, quasi fosse il grande monito de Il tempo che ci vuole, "prima c’è la vita, poi il cinema".