L’ha detto bene Ehsan Khoshbakht, co-direttore del festival e curatore della sezione Qualcosa per cui vivere - il cinema di George Stevens: quando si pensa all’immenso regista che era Stevens, non si può che finire per parlare del suo umanesimo. Si tratta di un umanesimo profondo, sfaccettato, pure contraddittorio, nato con Laurel e Hardy e conclusosi con Gesù di Nazareth. Sembra un paradosso, eppure a unire queste figure iconiche c’è molto più di quello che sembra: si tratta di innocenti incompresi che, pur volendo fare del bene, finiscono per diventare vittime. Si tratta di personaggi animati da una fede nella bontà che, nonostante le migliori intenzioni, si scontrano con la sofferenza. George Stevens ha saputo unire in una filmografia solo apparentemente contraddittoria, ma che in realtà è un cerchio perfetto, questi due mondi. Aspirazione alta, altissima, e vocazione popolare ma altrettanto alta di cui è stato testimone, creatore, narratore.
Due estremi solo per definizione ma che Stevens ha sempre ritenuto inscindibili (e non è forse questo il senso profondo del cinema hollywoodiano?) e che ha esplorato e rispettato con indicibile vocazione al mestiere, destreggiandosi tra la commedia (appunto le comiche per gli Hal Roach Studios, per cui faceva l’operatore, come Two Tars, ma anche le successive The More the Merrier, Woman of the Year), musical (Swing Time, con Ginger Rogers e Fred Astaire) e apparente leggerezza (Alice Adams, con l’amica di una vita Katherine Hepburn) e poi, dopo la guerra, grandi drammi (I Remember Mama, A Place in the Sun), western (Shane) e film storici e biblici (The Diary of Anne Frank, The Greatest Story Ever Told).
In George Stevens: a Filmmaker’s Journey, il figlio George Stevens Jr. ripercorre con sguardo curioso e un’ammirazione emozionata la vita del padre, dei suoi film (e nei film, viene detto, era lì che Stevens univa tutti i lati di sé in modo inequivocabile), srotolando quel gomitolo annodato in sé stesso che è la vita di un uomo secondo una linea temporale precisa dove i film, ovviamente i film, fanno da punti fermi per un percorso narrativo essenziale. Ad accompagnarci in questo viaggio nella vita di Stevens realizzato nel 1984 ci sono le testimonianze inestimabili quali quelle di Katharine Hepburn, Hal Roach, John Huston, Warren Beatty, Ginger Rogers, Fred Astaire, Fred Zinnemann, per citare solo i più noti al grande pubblico.
George Stevens: a Filmmaker’s Journey è un documento straordinario e necessario per riscorprire - anzi, ritrovare - la filmografia di un regista messo da parte dalla storia ma che ha saputo segnare in modo indelebile Hollywood, il cinema americano e la storia del cinema. Uno spirito libero e un regista attento, sempre centrato, la cui capacità incredibile, ricorda l’amico John Huston, era quella rara di saper calare lo spettatore dentro la scena, non semplicemente farlo assistere. Ed è proprio il pubblico, oltre al cinema, ciò che Stevens ha amato più di ogni altra cosa.
Di questo affresco magnifico e complesso che fu la vita di Stevens, a campeggiare come un monito indimenticabile c’è l’ombra lunga della seconda guerra mondiale, per cui partì volontario e che documentò con la sua personale cinepresa e la prima pellicola 16mm a colori (con cui riprese lo sbarco in Normandia, la liberazione di Parigi, il campo di Dachau - frammenti presenti nel documentario). Un’esperienza che lo segnò in modo indelebile e da cui seppe trovare una maggiore attenzione per l’umano e una prospettiva filosofica che confluirono nelle sue opere successive. Come lo segnò, in modo diverso ma altrettanto profondamente, l’episodio della lista nera durante il maccartismo a Hollywood, per cui si scontrò con Cecil B. DeMille per difendere Joseph Mankiewicz e l’ideale patriottico americano.
Furono una vita, un mestiere e una vocazione, quelli di Stevens, dove la parola regia coincise sempre con esistenza. La filmografia di George Stevens è un lascito dal valore inestimabile, testimonianza del tempo e della storia oltre che di un’epoca del Grande cinema e che George Stevens: a Filmmaker’s Journey, ci restituisce con esattamente l’amore profondo di chi guarda al cinema pensando che, nei suoi momenti più alti, sia davvero l’arte più potente di tutte. E George Stevens quell’arte la conosceva benissimo.