Primo film a occuparsi esplicitamente di mafia nel dopoguerra basandosi sul romanzo Piccola pretura (1948) del magistrato Giuseppe Lo Schiavo, ma anche primo poliziesco o primo western italiano a seconda delle diverse prospettive e sensibilità di genere, In nome della legge di Pietro Germi è rimasto in una certa parte della memoria cinematografica della critica italiana come un modello immorale, seppur di successo e di forza drammatica, di dialogo tra Stato e mafia che ha esteso la sua lunga ombra anche sul nostro successivo cinema civile.

Recensendo Il giorno della civetta (1968) di Damiano Damiani, Tullio Kezich trovava che, nonostante fosse uno dei pochi film “educativi” espressi dal cinema italiano di quegli anni, la sua “idealizzazione del contrasto tra la legge e la mafia” lo riportasse quasi “al lontano In nome della legge ”. Kezich si riferisce, in particolare, all’ultima sequenza del film di Germi in cui il giovane pretore idealista Guido Schiavi, interpretato da Massimo Girotti, e il massaro Turi Passalacqua, capomafia riconosciuto cui dà il suo volto scavato e giusto Charles Vanel, dialogano e collaborano sulla piazza del paese per individuare il colpevole dell’omicidio del giovane Paolino.

La scena si conclude con la consegna del colpevole alla giustizia da parte della mafia, ma anche con la dichiarazione da parte di Schiavi, rappresentante dello Stato, che Passalacqua sia un uomo giusto. Una conclusione che non scontentava solo chi, come Kezich, pensava che “nell’orrenda piaga che porta il nome di mafia non c’è proprio niente da ammirare”, ma anche, secondo quanto scrive Tommaso Buscetta in Addio Cosa Nostra, gli stessi mafiosi che ritenevano “il comportamento di Passalacqua […] indegno di un uomo d’onore”. Buscetta, al contrario, sostiene che in Giovanni Falcone rivedeva la stessa “forza tranquilla della giustizia” rappresentata dal personaggio di Girotti.

Questa potenziale dimensione di dialogo tra Stato e mafia non venne colta dalla solitamente attenta e scrupolosa opera di revisione preventiva della sceneggiatura della Direzione Generale dello Spettacolo che, nel riassunto della trama, tralasciava, sorprendentemente, la presenza e l’azione cruciale di Passalacqua nell’ultima scena del film. Il revisore avanzò invece dubbi sul dialogo tra Schiavi e il procuratore generale che lo invita a chiedere il trasferimento e abbandonare così la sua opera di lotta contro “un modo di vita, a volte anarchico, feudale o schiavistico, tuttora – a quanto sembra – vigente nell’interno dell’Isola”. Il revisore trovava che tale caratterizzazione, pur giustificata dalla costruzione drammatica, non giovasse “certo alla causa della fierezza, della dignità, della devozione al dovere della classe dei magistrati”.

Grazie al suo successo commerciale, In nome della legge generò un immediato tentativo di imitazione da parte di uno degli stessi protagonisti, quel Camillo Mastrocinque che nel film interpreta il losco Barone Lo Vasto e che, un anno dopo, sempre con Charles Vanel nel ruolo del ruolo del capomafia perbene, dirigerà Gli inesorabili (1950), basandosi sempre su un racconto di Lo Schiavo.

Questa volta la revisione preventiva non fu così favorevole e non apprezzò la parziale modifica della formula generica in cui il nuovo arrivato non è un pretore, ma un emigrante che, sotto la tutela del saggio mafioso locale, ritorna al paese natio per far luce su un delitto di molti anni prima. Questo cambiamento portava il revisore a cogliere nel soggetto una “assoluta assenza dei poteri dello Stato, […] completamente assorbiti dalla mafia” e a respingerne una prima versione. Una seconda versione, che accoglieva le richieste di modifiche della revisione, veniva giudicata accettabile, anche se mancava “ancora una chiara contrapposizione tra la mafia e la legge, com’era nel film di Germi”, per una motivazione che, quasi settantacinque anni dopo, lascia ancora increduli.

Anche se la rappresentazione della mafia nei suoi aspetti meno negativi avrebbe infatti potuto confondere gli spettatori rispetto alla sua vera natura e ai suoi scopi, tale confusione – conclude il revisore, citando anche l’autorità dello stesso Lo Schiavo – non andrebbe comunque sopravvalutata, “non costituendo più la mafia un problema d’attualità”. È proprio, al contrario, l’attualità dei contatti tra Stato e mafia che ci riporta inesorabilmente a In nome della legge.

 

I fascicoli che contengono i giudizi di revisione preventiva dei due film sono conservati nel fondo CF per la concessione certificato di nazionalità presso l’Archivio Centrale dello Stato: In nome della legge CF428, Gli inesorabili CF912.