Pare una sfida titanica scrivere oggi di The Blues Brothers, ultimo grande musical contemporaneo, espressione di quella libertà tardo-adolescenziale del cinema americano tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, che recuperava la valenza ludica del linguaggio classico in una forma di grande gioco per adulti, primo sentore delle nascenti tendenze postmoderne.

Nati quasi per gioco all’interno del Saturday Night Live dalla passione comune a John Belushi e Dan Aykroyd per soul e rhythm ‘n’ blues, i Blues Brothers rivitalizzano la musica nera di metà secolo, radunandone alcuni tra i maggiori esponenti quali Steve Cropper, Donald “Duck” Dunn, Lou Marini e Matt “Guitar” Murphy in una all star band riportata in auge dalla tournée documentata nell’album Briefcase Full of Blues. Dato il successo di Jake ed Elwood Blues – i cui caratteri e passato sono creati dallo stesso Aykroyd con Ron Gwynne – l’universo narrativo abbozzato negli sketches musicali viene espanso in una fittizia biografia cinematografica, film epocale capace di consacrare a mito il regista già di culto John Landis, gli interpreti e ancora di più i loro personaggi, entrati di diritto nell’immaginario collettivo, tanto da rendere il loro look riconoscibile ancora oggi.

Ricca di una comicità rocambolesca e catastrofica, la pellicola si caratterizza però soprattutto per i cammei di grandi stelle della black music come James Brown, John Lee Hooker, Ray Charles, Aretha Franklin e Cab Calloway, irrinunciabili punti di arrivo e partenza per chiunque voglia approcciarsi alle sonorità afroamericane. Le loro esibizioni sono pietre miliari del cinema musicale tout-court, momenti di vero spettacolo che nulla hanno da invidiare ai grandi titoli del genere: si pensi agli essenziali snodi narrativi rappresentati dai brani The Old Landmark, Shake A Tail Feather, Think o al virtuosismo vocale tipicamente nero di Calloway in Minnie The Moocher. E ancor più il rispettoso revival di alcuni classici del folklore black come She Caught The Katy, Everybody Needs Somebody e Sweet Home Chicago, reinterpretate dai due attori-cantanti bianchi in forma di devoto omaggio ai propri beniamini musicali.

La scenografia urbana di Chicago, città natia del blues elettrico, si fa allora culla della contaminazioni culturali del Paese che, andando oltre le questioni politiche e sociali interne, diventano manifestazione viva del melting pot americano, come dimostrano le versioni dei rock bianchi Peter Gunn Theme e Jailhouse Rock o del country Rawhide. La musica prima di tutto quale elemento di pacifica convivenza, che abbatte le barriere e si fa terreno d’incontro tra le parti.