A noi! (1922) e Accuso Mussolini! (1945) sono due documentari girati rispettivamente all’inizio e alla fine del Ventennio, che, apparentemente, documentano, fin dai titoli, il trionfo e la caduta del regime fascista. Non ci sono dubbi che il primo film del fascista Umberto Paradisi glorifichi la presa del potere da parte di Mussolini attraverso la Marcia su Roma. Il secondo, prodotto in Svizzera dall’italiano Raffaello Mazzocchi, già distributore di film del Ventennio, emerge più ambiguo nella sua posizione di condanna del regime, tanto che, ripercorrendone le immagini e il commento della voce narrante, si può arrivare a dubitare se lo scopo di Accuso Mussolini! sia quello di mostrare l’infondatezza dell’accusa più che documentare la crudeltà del regime. Certamente sia A noi! che Accuso Mussolini! esemplificano il potere della manipolazione dell’immagine che può portare a quella forma di “fascismo che affascina” su cui ci ha messo in guardia Susan Sontag.
A noi! mostra un fascismo presente in ogni luogo, nella nazione come nella capitale. Le immagini di “Roma madre che accoglie la gioventù d’Italia” mettono in rilievo le disparate provenienze dei fascisti che occupano la città. I cartelli che sfilano indicano le varie regioni del Regno d’Italia con particolare enfasi sulla Dalmazia e su Spalato, la cui presenza viene ripresa anche dal commento sonoro come continuazione della gloriosa eredità politica dei domini veneziani.
Il presente glorioso si collega all’ugualmente glorioso passato. La capitale diventa quindi un microcosmo per l’Italia intera ed è soggetta allo stesso meccanismo di mappatura: Paradisi ne mostra i luoghi simbolo come il Quirinale, l’Altare della Patria, Via Nazionale e la loro appropriazione, senza nessuna violenza, da parte dei fasci. A noi! sottoscrive il mito fondativo, sottolineando il ruolo di Mussolini nella formazione del primo governo che l’Italia avrà degno di questo nome dopo anni di incertezze.
Anche Accuso Mussolini! adotta la strategia della mappatura della nazione e del mito fondativo, apparentemente, sul fronte opposto della Resistenza e della nascita della nuova Italia antifascista. Le immagini iniziali ci mostrano infatti i monumenti dell’antichità classica, orgoglio nazionale che può essere finalmente valorizzato oltre la retorica fascista. Già da questo inizio, nonostante il commento sonoro di condanna, siamo colti di sorpresa dallo stesso artificio retorico di glorificazione del passato e di narrazione teleologica dalla Storia classica a quella contemporanea, passando per il Rinascimento e il Risorgimento.
Per tutto il documentario, le immagini e il commento sonoro denunciano il fascismo ed esaltano l’Italia della Resistenza, ma instillano contemporaneamente il dubbio che questa glorificazione del nuovo, raggiunta con un’enfasi declamatoria pari a quella del Ventennio, altro non sia che un mettere in guardia sulle sue possibili conseguenze. L’adozione di un operaio come voce narrante del documentario, le scene di condanna dell’impresa di Abissinia e l’invito a considerarne il popolo come nostro pari non da colonizzare, l’enfasi sull’unitarietà di un governo che mette insieme comunisti e liberali, comizi in cui Cadorna, Foa e Rittenberg parlano in successione e su questure e armerie che si aprono spontaneamente ai partigiani perché si procurino armi rivolgono a quei settori della società che non si riconoscevano nei partiti della sinistra una serie di inquietudini sul loro futuro politico ed economico.
Inoltre, dall’Italia plurale dell’inizio con i suoi monumenti sparsi in tutta la penisola, si passa alla fine alla sola descrizione della liberazione di Milano, funzionale al lungo capitolo su Piazzale Loreto e allo scempio dei corpi di Mussolini e Petacci. Ricollegandosi alla presa delle armi da parte dei partigiani, il documentario sembra chiedere: potete davvero fidarvi che queste armi non saranno in futuro utilizzate contro di voi e che la massa non tratterà i vostri cadaveri di borghesi e liberali come sta facendo con quello del dittatore e della sua amante?