Non che ci fosse bisogno di ribadirlo, ma l’importanza storica di Inside Out (2015) è stata a più riprese rimarcata dalla Pixar stessa che, negli anni a seguire, ha usato il film di Pete Docter come un punto di riferimento, un modello imprescindibile del loro cammino con il quale, volenti o nolenti, i titoli successivi hanno dovuto fare i conti.
Oggi, nove anni dopo l’exploit, la casa di produzione torna a mettere mano in quell’universo narrativo confermando un’altra caratteristica del loro percorso artistico: l’incredibile bravura nel riuscire a confezionare dei sequel funzionali, misurati e tutto sommato riusciti, ma al tempo stesso fondamentalmente privi di interesse.
Pensateci. Al di là di qualche eccezione (il terzo capitolo di Toy Story in senso positivo, la saga di Cars in quello negativo), i sequel Pixar sono delle garanzie: prodotti di intrattenimento abilissimi nell’abitare un limite di cui sono perfettamente consapevoli.
Se i capitoli originali sorprendono per inventiva, intuizioni, fantasia e immaginario, quelli successivi concentrano tutti gli sforzi nel provare a raccontare una storia in grado di intrattenere ed emozionare, giocando sulla difensiva ma non per questo dimenticandosi della qualità da esprimere. Squadra che vince non si cambia, insomma. Questa è la ricetta perseguita dai vari Monsters University (2013), Alla ricerca di Dory (2016), Gli Incredibili 2 (2018), ai quali si aggiunge ora proprio Inside Out 2.
La sceneggiatrice Meg LeFauve (già al lavoro sul primo film) ricalca per filo e per segno il modello tracciato nove anni fa: stesse dinamiche, stessi ostacoli, stessi cambiamenti e stessa morale. Dal canto suo invece, la regista esordiente Kelsey Mann “si limita” a portare in scena il copione rispettando i riferimenti creativi alla base del successo del 2015, lavorando quindi su forme, colori e dimensioni in grado di abbracciare il pubblico più largo possibile, dalle platee più infantili a quelle più cinefile e accorte. Tutto è al posto giusto, diventa difficile recriminare qualche sbavatura e il film non può che appagare il pubblico di ogni età (si veda lo strepitoso successo al botteghino mondiale).
Per chi però possiede l’instancabile vena del romanticismo, resta il rammarico di dover assistere all’ennesimo tassello di una major che ha da tempo ormai cambiato rotta e sembra non essere più intenzionata a tornare sui suoi passi. La notizia che lungometraggi della qualità espressa da Pixar possano diventare fenomeni popolari, è sicuramente fonte di gioia (per stare in tema).
Tuttavia è anche vero che la casa di Emervylle ci ha da sempre abituato a un altro stile, altre mire, altri orizzonti (verso l’infinito, ricordate?). Anni fa, da queste parti si creava un immaginario, un nuovo modello narrativo, si combatteva per vincere la sfida di sdoganare l’animazione al di fuori dei confini del marketing.
Oggi si raccoglie (se vogliamo anche giustamente) di quanto seminato, ci si adegua e ci si adagia sugli allori cercando, egregiamente, di centrare sempre la soglia minima della qualità ma sfruttando in tutto e per tutto l’emozione di massa più contemporanea: la nostalgia (presente, guarda un po’, anche nel film). È bellissimo Inside Out 2, ma non ci si può accontentare.