Ci sono quei film per cui una categorizzazione univoca appare riduttiva, se non addirittura fuorviante. Opere che strabordano dalla netta definizione, per abbracciare una moltitudine di forme espressive tale da renderle - sintatticamente, semanticamente e pragmaticamente – impossibili da ascrivere ad un singolo genere. È il caso di Inu-Oh, ultimo lungometraggio di Masaaki Yuasa, presentato nel 2021 nella sezione Orizzonti della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia e ora finalmente nelle nostre sale grazie all'azione congiunta della distribuzione Double Line e dell'editore Hikari.
Storia, costume, musica e politica si fondono nel coro estatico da cui prende forma la quinta esperienza cinematografica di Yuasa. Un artista per cui l'abusato termine "genio" trova giusta collocazione (d'altronde in che altro modo si può definire la mente da cui sono scaturite magie come Mindgame e Night Is Short, Walk On Girl o capolavori seriali quali Kemonozume e Devilman Crybaby?) e che anche in questo caso, partendo da un lavoro su commissione, ribadisce la propria ammaliante esplosività. Traendo spunto dalla figura di un anonimo teatrante ante litteram, precursore della forma No, l'autore Hideo Furukawa consegna al regista una storia sul Giappone medievale che Yuasa, grazie anche al contributo dell'illustratore Taiyo Matsumoto, trasforma nell'ennesima meraviglia animata.
Fulcro della storia, il tentativo del giovane Tomona di diventare un suonatore di biwa, un tradizionale strumento a corde qui utilizzato come accompagnamento musicale alle narrazioni orali del terribile conflitto tra i clan Genji ed Heike. L'apice dell'espressione artistica di Tomona viene raggiunto grazie all'incontro con Inu-Oh, essere umano che in seguito ad una maledizione è stato tramutato in una creatura deforme ma dotata di movenze sublimi e di travolgenti capacità canore.
Dalla musica di Tomona e dalle doti innate di Inu-Oh ha inizio una parabola di popolarità in costante ascesa, costituita da esibizioni mirabolanti che Yuasa intride di sonorità rock.
Anticipando di cinque secoli la nascita della musica leggera, Inu-Oh acquista, agli occhi del pubblico Quattrocentesco, le sembianza ora di un Michael Jackson in kimono, ora quelle di un Freddie Mercury acrobata, per poi culminare la propria "trasformazione" in un essere le cui movenze paiono la sintesi tra i talenti di Rudolf Nureev e Simone Biles (ma sempre connotati da un evidente sfumatura glam).
In altri termini, Inu-Oh, nel momento in cui cede la scena al suo vero protagonista, si trasforma in un'incontenibile opera pop-rock, in cui Yuasa sfodera tutta la sua inventiva in quanto a regista di opere animate, coreografando le esibizioni e "riprendendole" in modo da valorizzarne tanto la componente spettacolare quanto l'intrinseco valore drammatico. Perchè nonostante lo sfarzo visivo e l'estasi goduriosa delle performace, le implicazioni morali del testo sono profondamente tragiche. Si parla di atroci tradimenti, genocidi e repressione in un periodo storico del Giappone lacerato da conflitti all'insegna della conquista territoriale.
Ed in questo senso Yuasa e il team creativo da lui coordinato riescono nell'impresa di sublimare eventi dolorosamente reali in un'opera esaltante dal punto di vista sensoriale, ma che non manca dell'adeguata sensibilità nel trattare gli aspetti che la richiedono. Inu-Oh si dispiega quindi in un magniloquente viaggio attraverso ferite e folclore di un Paese che, anche al netto della ricchissima filmografia nipponica, forse non era mai giunto fino a noi in una veste al contempo tanto bizzarra quanto profonda ed entusiasmante.
Non sorprende che ci si possa trovare disorientati, o addirittura tramortiti, da questi novantasette minuti di rara intensità. Ma anche nello sbigottimento, assistere all’ultima creazione di Masaaki Yuasa si rivela un’esperienza irrinunciabile, un trionfo, l’ennesimo, dei cui prodigi non saremo mai sazi.