Il confine labile ed enigmatico tra arte e cinema sperimentale trova terreno fecondo in registi come Jean Renoir, René Clair e Hans Richter, tutti e tre accomunati dall’essere d’avanguardia, irriverenti, fuori dalle righe nel panorama del cinema muto degli anni Venti. Le arti visive sono le vere protagoniste di quattro lungometraggi, tre francesi e uno tedesco, in cui troviamo il realismo con Jean Renoir (Charleston, 1927 e La piccola fiammiferaia, 1928), il dadaismo con René Clair (Parigi che dorme, 1923) e l’astrattismo con Hans Richter (Una giornata di lavoro, 1929).
La Parigi onirica di René Clair è teatro di un contesto quasi surrealista, in linea con il pensiero rappresentativo della Ville Lumière secondo il regista francese. Un quotidiano che si ribalta, si svuota del consueto dinamismo e assume sfumature inquietanti, dove i pochi scampati dall’incantesimo di uno scienziato “passo” si illudono di poter essere finalmente liberi. Primo vero lungometraggio di René Clair (Entr’acte fu girato un anno dopo) è inoltre precursore del cinema fantascientifico.
Una giornata di lavoro, più volte rimontato e risonorizzato da Richter nel corso del tempo e altresì conosciuto come Everyday o Every Day, è un’esplosione di esperimenti con la macchina da presa. Un caleidoscopio in scala di grigi dettato dal ritmo sempre più martellante del susseguirsi delle inquadrature, nel breve film di sedici minuti assistiamo alla comparsa di Sergej Ejzenštein, nei panni di un poliziotto.
Realismo e sogno si alternano nei due film di Renoir. Charleston, che doveva originariamente avere un metraggio maggiore, è una sorta di lezione di ballo, il Charleston, in salsa fantastico/post-apocalittica (iconica la Tour-Eiffel spezzata). Non si può non pensare a Il Cantante di Jazz (Alan Crosland, 1927) per la maschera del protagonista (Johnny Huggins), scienziato africano, esploratore delle “terre sconosciute” europee nel 2028.
In La Petite marchande d’allumettes l’ingenua fiammiferaia (la musa e compagna di vita Catherine Hessling), ricalcata sulla celebre fiaba di Hans Christian Andersen, in preda alla morsa del gelo e dell’inverno finisce in un paese dei balocchi, in cui soldatini, carillon, bambole e orsetti si animano e popolano i sogni della ragazza. Fiabesco e realismo si alternano equilibrandosi; Renoir, infine, si serve di pellicole pancromatiche, anziché ortocromatiche.
Ai tre registi, che col cinema sonoro affermarono il loro “essere cinefili”, va certamente attribuito il merito, nel muto, di seguire la stessa linea direttrice dell’arte figurativa d’avanguardia, portandola sullo schermo e mostrandocela in tutta la sua bellezza e complessità.