Sembrava impossibile potesse nascere qualcosa di veramente solido dalle macerie del disastrato connubio tra la casa editrice DC Comics e la Warner Bros. Dopo il vano tentativo di replicare il progetto attuato dai Marvel studios - ed il conseguente successo commerciale - la compagnia di Kevin Tsujihara ha scelto di cambiare registro, annunciando un film distaccato dallo sconclusionato universo espanso, un prototipo tramite il quale poter osare più di quanto fatto in precedenza, un'opera autonoma scarna e diretta sin dal titolo: Joker.
Il progetto prevedeva una storia d'origine sul più celebre antagonista di Batman, che ne esplorasse il passato e ne mettesse in luce il perturbante fascino. La regia è stata affidata a Todd Phillips, giostratore di picareschi road movie e triviali commedie, qui immediatamente chiamato ad un drastico cambio di registro che non poteva fare a meno di suscitare qualche perplessità. La scelta di Joaquin Phoenix come protagonista ha certamente accentuato il grado di attenzione, ma gli interrogativi riguardo a questa singolare operazione rimanevano molti. Il clima scorsesiano lasciato trasudare dai primi scorci di campagna promozionale faceva intuire che la direzione intrapresa potesse essere quella giusta; eppure, il dubbio che si potesse trattare di una convincente strategia di marketing senza fondamenta ha persistito sino all'ingresso in sala. Sembrava impossibile, eppure la magia è avvenuta e Phillips con una prova di carattere inattesa ha realizzato un film magnifico.
In una Gotham violenta e cinica come non mai, il fragile Arthur Fleck cerca di trovare la propria identità e nel tentativo di diffondere un barlume di gioia all'interno del suo mondo iniquo si trova ad essere colpito ripetutamente da esso. "Un fiore bellissimo nato sull’asfalto" è la metafora utilizzata dall'autore, la quale sintetizza efficacemente lo scontro tra l'anima tormentata del protagonista e il contesto brutale con il quale è costretto a scontrarsi. Qui, tra sorrisi pronti a tramutarsi in smorfie, Arthur comprende come le proprie spalle siano troppo esili per reggere il peso opprimente della cattiveria che lo pressa senza tregua. La follia allora diventa l'unica strada da intraprendere per instaurare un dialogo con la realtà, le irrefrenabili risate perdono l’asfissiante timbro gutturale ed esplodono in una straripante e malsana ilarità che trasforma il dramma in una commedia talmente tetra da risultare più dura e cupa della tragedia stessa. Una discesa senza possibilità di ritorno, coraggiosissima nel precludere ogni spiraglio di redenzione a un personaggio dalla massiccia carica empatica, che attrae e molesta la sensibilità dello spettatore, il quale parteggia per una vittima che ribalta il proprio ruolo fino a rendersi incarnazione di un male incomprensibile.
Recidendo ogni legame con le opere matrici (altra scelta che aveva fatto storcere il naso a molti) Phillips tiene le redini col polso fermo di chi ha ben chiaro l'esito per il quale si sta adoperando e sfrutta la grottesca corporeità di Phoenix per enfatizzare le fasi salienti con sprazzi di terrificante poesia. La tensione è calibrata con sapiente maestria fino ad un atto finale in cui la potenza del racconto divampa in un climax ascendente di concitazione, efferatezza ed eleganza stilistica. Un epilogo sontuoso che strappa gli applausi dalle mani, le quali si mettono in movimento per contribuire alla celebrazione di un’opera che si temeva troncata e ammansita dal contesto produttivo in cui si colloca, per rivelarsi invece estremamente spavalda ed incisiva, fino a superare l’impossibile e sbocciare proprio come un fiore bellissimo nato sull’asfalto.