Jeanne Moreau quando intona Le Tourbillon sbaglia una strofa, il suo sorriso e un gesto delle mani ci fanno capire che si confonde ma non si arresta e prosegue, durante il montaggio l’errore non viene tagliato, Truffaut, consapevole della scelta lo accetta caricando di significato questo momento di spensieratezza, una svista, l’imprecisione dell’ordine delle strofe segue il vortice della canzone che per un istante prende il sopravvento trascinando con sé la “femme fatale qui m’fut fatale”. Assecondare l’accidentalità degli eventi afferrando l’essenza impalpabile dell’attimo è forse la sostanza di Jules e Jim, l’incontro mancato al café tra Jim e Catherine, pochi minuti di ritardo, un eccessivo ottimismo in fatto di orari, “alors tous deux on est reparti dans le tourbillon de la vie”…
Il vortice della vita non è un flusso indistinto di immagini ma al contrario è composto da istantanee ben definite, purtroppo non infinite, che cadenzano il turbinio accidentato e accidentale dell’esistenza fatta di ciak sbagliati, tagliati e ricomposti dalla memoria. La spontaneità di Catherine si oppone e allo stesso tempo custodisce la ieraticità del viso della statua esposta in un museo all’aperto su un’isola dell’Adriatico, un’espressione misteriosa e altera scolpita in modo rozzo che colpisce a tal punto i due amici da spingerli a partire immediatamente per poter osservare da vicino quel sorriso fermo e tranquillo, ammirato durante una proiezione con la lanterna magica nello studio di Albert, un artista amico di Jules: “Era molto più bella e misteriosa di quanto avevano immaginato, la guardarono in silenzio. Ne parlarono soltanto il giorno dopo. Avevano mai incontrato quel sorriso? Mai. Cosa avrebbero fatto se lo avessero incontrato? Lo avrebbero seguito”.
Di ritorno a Parigi l’espressione enigmatica della scultura appare loro in tutta la sua tangibilità, la cinepresa segue il movimento della veletta del cappello che svela il volto di Catherine, indugiando qualche istante come incredula sul suo profilo. Truffaut segue la trama del romanzo di Henri-Pierre Roché estrapolando dal testo le battute della sceneggiatura, la voce fuori campo del narratore è un espediente necessario per non snaturare un adattamento fedele, ma in questa lettura filmata il regista sceglie di ampliare alcune parti del libro dedicando ampio spazio all’avvento della Grande Guerra.
Catherine resta il fulcro di entrambe le opere e Jeanne Moreau interpreta un ruolo all’altezza del suo talento, l’attrice delusa dalla sua interpretazione ne La notte (1961) cerca in questo film un riscatto personale e Truffaut sembra spalleggiarla: “Antonioni aveva sfruttato il lato ‘Bette Davis’ di Jeanne Moreau: il viso imbronciato. Non rideva mai. Io ho voluto svelare i suoi tratti. Ha un sorriso stupefacente. D’altronde c’è una scena nel film in cui lei dice: ‘Ma io so anche sorridere’. E lì si vede che può avere un altro viso”. (Antoine de Baecque, Serge Toubiana, François Truffaut. La biografia, Torino, 2003)
Il sorriso di Catherine finalmente può accendersi, Jules e Jim, come il Pigmalione del mito sono riusciti a risvegliare la statua vista su un’isola dell’Adriatico, ma lo sguardo della donna possiede un potere medusizzante, appena accennato mentre la si osserva giocare con le smorfie del proprio viso che Truffaut pietrifica con il fermo-immagine.
Apriamo una breve parentesi sul film di Antonioni, come avviene per Jules e Jim, il fascino di una statua in questo caso cattura l’attenzione di un gatto che per un giorno intero non distoglie i suoi occhi da quella testa inanimata, la pietra modellata si pone a metà strada tra il mondo organico e l’inorganico, un limbo in cui sembra confinarla l’intervento dell’uomo.
“Perché tante statue nei paesaggi della malinconia?” Con questa domanda si apre il capitolo Lo sguardo delle statue del libro L’inchiostro della malinconia (2012) di Jean Starobinski. L’autore pone la perfezione immateriale della statua, la cui materia prima è la terra stessa, in corrispondenza con l’imperfezione degli esseri umani: “Come le architetture, la sua compiutezza (o la sua incompiutezza, la sua degradazione) contrasta con tutto ciò che, attorno a essa, pare appartenere al tempo della vita corruttibile. Se ai suoi fianchi ci sono delle figure vive, essa ne definisce o modifica lo statuto: i personaggi attorno alle statue assolvono, perciò, dei ruoli imposti; diventano, lì accanto, devoti meditativi o collezionisti, artisti o passanti effimeri. E soprattutto, l’immagine di pietra stabilisce con le immagini di carne un contrasto in cui è inevitabilmente implicato un pensiero della vita, della morte e della sopravvivenza”. La statua è una presenza che produce assenza, “la sua opacità, il suo accecamento spandono solitudine all’intorno”.
La statua di Catherine abita il paesaggio della malinconia, è un reperto archeologico che emerge da un passato remoto, tra le varie riproduzioni di sculture proiettate con la lanterna magica, quel volto sembra distinguersi perché non è stato corrotto dalle ingiurie del tempo. Lo stesso accade ai protagonisti del film, l’invecchiamento fisico non li tocca, sono le opere di Picasso appese alle pareti, l’evoluzione del suo stile, a scandire il tempo; questo espediente sembra collocarli in una realtà contemplativa, un’esistenza verso cui tendere a costo di giocare con la sostanza della vita. La scelta di Picasso è probabilmente dettata anche dalla biografia di Roché il quale aveva frequentato l’ambiente artistico parigino entrando in contatto con l’artista che, tra l’altro, aveva presentato a Gertrude Stein e aveva fatto conoscere agli americani. Anche l’infatuazione per la statua nel film (e nel romanzo) è autobiografica, Roché, a proposito dell’amico Brancusi, ricorda di quando, innamoratosi di un suo bronzo e non potendo più farne a meno, lo acquista immediatamente.
Lo sguardo delle statue è stato ripetutamente interrogato da Baudelaire, il quale definisce la bellezza “un sogno di pietra” il cui occhio largo e vuoto sa incantare quegli amanti docili, il bello s’imprime nella memoria, il messaggio emanato dalla pietra è un invito a pensare oltre le cose terrestri. L’eterna Malinconia “fissa il suo volto augusto nelle acque di un piccolo lago, come lei immote. E il sognatore che passa, triste e incantato, mentre contempla quella grande figura dalle membra vigorose, ma illanguidita da una pena segreta, mormora: Ecco mia sorella!”.
Nello studio di Albert si scorge una maschera mortuaria appesa a un muro della stanza, una premonizione di morte che può essere messa in relazione con il tuffo di Catherine nella Senna, un salto che si oppone alla fissità dello sguardo della statua riflesso nelle acque immobili, in quel momento la donna abbandona il ruolo passivo di oggetto di venerazione e, presagendo la propria fine, il suo sorriso si trasforma in quello della Sconosciuta della Senna, intravista forse a casa di Albert.