A Teheran la giovane Selena, vestita di solo maglietta di Topolino e pantaloncini, danza liberamente. Dal fuori campo un'imposizione blocca il movimento: bisogna vestirsi. D'altra parte mamma e figlia sono in un negozio di vestiti proprio per questo, per comprare un abito per la cerimonia. Inizia così la prova costume della bambina, ma anche il potere dell'autorità sul proprio corpo. Il ridicolmente esuberante parrucco velando il più possibile il capo rivela l'interdizione fin da bambini della carne. Trovato l'abito giusto, Selena si spoglia, torna a danzare, riscopre la potenza della propria carne.
È forse l'unico momento di reale poesia di Kafka a Teheran, film a episodi in 11 quadretti, 9 dei quali raffiguranti situazioni quotidiane di Teheran e caratterizzati dalla stessa impostazione: macchina da presa fissa, un campo in cui un soggetto democratico chiede un certo tipo di riconoscimento o di diritto, un fuori campo autoritario la cui funzione è di negarglielo in nome di una legge superiore. A differire solo prologo ed epilogo: il primo una sinfonia urbana, sempre a macchina fissa; il secondo, finalmente, un contro campo sul volto scoperto di un potere agonizzante con la macchina da presa che si libera per godersi un collasso in stile Fight Club.
Il riferimento a Fincher può sembrare quasi assurdo per un film da realismo socialista con camera fissa, eppure il modo con cui la macchina da presa prende la posizione autoritaria e schiaccia psicologicamente la performance attoriale assomiglia a un tipico gioco fincheriano. Questo si evidenzia particolarmente nei due quadretti sulla vestizione e nei due sul mondo del lavoro, dove il corpo attoriale è costretto dal “regista” ad adeguarsi alle norme vigenti.
Essere nella posizione del mostro facilita un distacco critico dalla scena da parte dello spettatore mentre l'identificazione con il soggetto pressato permette di sviluppare empatia per il corpo democratico. Queste due contrastanti modalità spettatoriali giungono a una sublimazione liberatoria solo in pochi circoscritti casi, coincidenti con l'esposizione della carne: la svestizione di Selena, appunto, e l'epilogo, in cui, però, è il “corpo” cittadino a ribellarsi.
I registi Asgari e Khatami in varie dichiarazioni hanno posto l'accento sull'influenza di un genere poetico tipico della letteratura persiana, il dibattito (munazara). Il loro intento era di trasformare tale genere in forma cinematografica impostando il dibattito come un gioco di campo e fuori campo. Il dibattito è una specie di tenzone in cui due soggetti si appellano al lettore per rivendicare la propria superiorità rispetto all'avversario.
Se il genere sembra appropriato per esprimere la rivendicazione del soggetto democratico, l'esclusione dal campo del corpo autoritario e la sua mostrificazione mai esposta impediscono a uno dei contendenti di appellarsi allo spettatore. Un duello per uno spettatore a cui è negato il godimento dello scontro. Un gioco a somma zero, dove fin da subito è deciso dai registi che solo nel finale si potrà avere una minima vittoria, coincidente con la rottura della stessa impostazione registica “autoritaria”.
Nell'appellarsi a una forma poetica i registi “totalizzano” campo e fuori campo, impediscono l'irruzione di qualsiasi imprevisto nel set, negano l'emergere della poesia stessa per denunciare l'interdizione di forme alternative al potere costituito. Nel suo gioco di repressione sistemica del poetico solo in vista di un'utopica catastrofe finale, il film sembra ribadire una retorica tipica del realismo socialista per cui la vera trasformazione bisogna apportarla nel reale piuttosto che nel filmico.
Eppure proprio il cinema iraniano ci aveva abituato a momenti miracolosi di rivoluzione filmica. Consapevole fin dalla genesi di essere prodotto per un pubblico occidentale, il film mantiene lo spettatore sicuro sulla sua poltrona lasciando inalterato il suo sguardo.