La camera si muove tra le strade di Tel Aviv, alla ricerca di una creatura mitologica: una donna, che ha viaggiato a piedi da Gaza alla città israeliana per poter essere pienamente sé stessa. Il documentario di Yolande Zauberman riflette l’idea di un viaggio attraverso un deserto emotivo, in cui manca la piena accettazione, verso l’oasi della transizione; l’opera mostra le condizioni delle molte donne trans che sono costrette a lavorare come sex worker e rischiano la loro vita ogni giorno sulle strade di Tel Aviv in un equilibro precario tra la possibilità di eseguire le operazioni per il cambio di sesso e rischiare la violenza ogni sera.
La continua ricerca della sopraccitata creatura mitologica, che da Gaza fugge a Tel Aviv, una donna di cui non vi è traccia di esistenza e si presenta quasi come un’ossessione della regista, però, è uno sfondo debole e ai limiti del grottesco di fronte agli aspetti più importanti del film – per lo meno da un punto di vista contenutistico: la condizione delle donne trans che svolgono la professione di sex worker in un contesto violento a causa della transfobia e dalla mancanza di tutele lavorativa, è contornato da un pretesto che sfocia nel voyeurismo. Zauberman cerca incessantemente la bellezza, per non meglio motivati obiettivi, ignorando ciò che dovrebbe essere il fulcro di un progetto come questo, ovvero il racconto della vita altrui.
Data l’attenzione vaga e superficiale che la regista presta ai propri soggetti, anche lo spettatore si perde nella bellezza fisica delle donne mostrate in schermo, ascoltando in maniera passiva le loro parole. Lo stesso titolo, La belle de Gaza, denota una certa leggerezza: sebbene nel film sia stata intervistata anche qualche ragazza di origini palestinesi, il racconto dell’esperienza di vita di una persona transgender in questo territorio risulta approssimativo poiché non viene analizzato il contesto mediorientale, ma solo sottolineata una grande intolleranza…
La scelta di un titolo di questo tipo sembra essere giustificata solo dal velato esotismo di cui l’opera si fa portatrice; non vi è un racconto alla pari e brutalmente onesto da parte dei soggetti narranti, ma un montaggio di frasi pregne di significato che si perdono dal momento che la regista applica un filtro di scoperta e ammirazione, quasi che non stia filmando persone, ma esseri da ammirare e mistificare. La percezione è quindi di stare osservando delle creature attraverso il vetro di sicurezza dello zoo: lo spettatore è ammirato, ma libero, mentre le protagoniste sono in catene, dei loro bisogni e della loro storia conosciamo solo qualche futile dettaglio scritto sulla targhetta di presentazione dell’animale fuori dalla gabbia.
Sebbene quest’opera sia sicuramente appagante per lo sguardo, il documentario appare immaturo nell’affrontare un tema che dovrebbe essere il focus dell’opera, proprio per quel titolo scelto così impunemente. La sensazione è che questo lungometraggio sarebbe potuto essere girato in qualunque altra parte del mondo – per lo meno, in una qualunque città con forte influenza occidentale.