È la Sinfonia di New York – prima abbozzata in un modesto flat newyorkese dell’East Side, poi eseguita in un trionfo mélo alla Carnegie Hall – che esemplifica e tematizza tutti i conflitti di La città del peccato (1940) di Anatole Litvak. Tutti gli indizi ci porterebbero a definire questo film un puro noir: è prodotto dalla Warner Bros, la “casa” del genere; la grande città, New York, si fa specchio di una prova morale durissima, dove l’individualismo di chi sogna equivale alla punizione di chi osa troppo; ha inoltre come protagonista una delle icone massime del noir, James Cagney, nel ruolo di un tiratore di boxe dei bassifondi che scala grattacieli di successo fino al Madison Square Garden.

Se questi indizi sono necessari non sono però sufficienti: il soggetto di La città del peccato si fa infatti, nelle mani di Litvak, una tragedia mélo dalla morale ambigua, ricca molto più di sentimenti che di azione, di impulsi emotivi e di luci della ribalta che di buie geografie urbane. Non è un caso che lo stesso Cagney si sia lamentato della regia di Litvak, a cui avrebbe preferito Raoul Walsh con cui l’anno prima aveva girato I ruggenti anni venti (1939).

Per sfortuna di Cagney e per fortuna nostra, Litvak era invece ossessionato dai movimenti indagatori della macchina da presa e da come lo spazio si rivelasse attraverso lo sguardo di chi lo abita (“La macchina da presa era il suo dio”, ricorda Bette Davis) molto più che dal corpo dei suoi attori. E così La città dal peccato tra il corpo e l’anima sceglie l’anima, rendendosi non poco distante da quel glorioso film sulla boxe che invece sarà, sette anni dopo, Anima e corpo (1947) di Robert Rossen (tutto votato al corpo, alle posture, agli oggetti e al denaro, agli abiti che dichiarano identità e posizione sociale).

Ciò che in primis distingue questo film di Litvak è infatti il profilo del protagonista, animato non dal desiderio di riscatto da una condizione precaria e subalterna, ma da un’insicurezza sentimentale: quella di perdere la donna amata. Una premessa da dramma sentimentale.

Il protagonista Danny (appunto Cagney) è un uomo tranquillo e senza ambizione, un camionista di professione che sogna soltanto “una vita tranquilla” e per questo rifiuta l’opportunità di diventare un puglie professionista nonostante sia stato letteralmente implorato di farlo. Peggy, la sua ragazza (Ann Sheridan), sembra condividere i suoi stessi valori quando tuttavia la luce della fortuna decide di brillare anche su di lei, e lo fai nei panni di Murray (Anthony Quinn), un ballerino che le offre l’opportunità di esibirsi nei più grandi teatri del mondo. Peggy è molto più impulsiva e ambiziosa, o forse semplicemente più ingenua (ma attenzione: Litvak in questo senso si pone sempre al limite del giudizio, puntando il dito non tanto sui personaggi ma sulla moralità ambigua del contesto in cui questi si muovono).

Il fatto, che cambia tutto, è che Peggy il sogno decide però di inseguirlo. E così anche Danny, per riconquistarla, decide di indossare i guantoni e andare contro ai suoi principi. Una svolta, ancora, da dramma sentimentale e che nel corso del film spinge il dramma ai limiti della tragedia: non fosse che Litvak si pone sempre alla ricerca, anche nei momenti più bassi dei personaggi, alla loro stessa altezza, li guarda negli occhi o, letteralmente, ci fa sentire addosso il loro sguardo, alla ricerca dell’empatia. Come nella meravigliosa scena finale di fronte all’edicola, quando Danny reincontra Peggy, e il noir diventa quasi citazionismo a Charlie Chaplin (Luci della città, 1931).

Quello di Litvak è un cinema di persone in piena crisi d’identità, che faticano a riconoscersi allo specchio, che si lasciano ingannare dai loro stessi abiti, persi in un mondo violento e ideologico (Litvak, nato nel 1902 a Kyiv da una famiglia ebrea russa, scappa prima dal totalitarismo sovietico e poi da quello nazista, condannandoli entrambi) che solo nei buoni esempi dei singoli, a prescindere dalla barricata, può ancora dare speranza di un futuro migliore (e cosa c’è di più hollywoodiano di questo?). Si tratta di un umanesimo assoluto, che in La città del peccato ne punisce uno ma solo per salvarne altri, rendendo il fallimento di Danny l’ispirazione necessaria per permettere al fratello Eddie di comporre la sua Sinfonia. Una musica che, a sua volta, è un monito agrodolce per tutti coloro che osano sognare.