“Un traditore tradirà di nuovo se necessario, la prima regola è un infame non va mai perdonato, hai cambiato aspetto ma l’intento non è variato”, così rappa Mattia all’inizio del film, pochi minuti prima della morte del fratello maggiore in un tragico incidente che determinerà la scelta di progressivo isolamento e radicalizzazione islamica del protagonista. Perché Mattia è incapace di assolversi per quella morte e per la lacerazione che porta all’interno della famiglia, lascia la scuola per andare a lavorare nella stessa fabbrica dove lavorava il fratello in un estremo tentativo di annullamento e qui conosce Murad, un immigrato marocchino, che lo introduce alla religione islamica.
Tuttavia, mentre la versione dell’Islam di Murad è venuta a patti con l’edonismo occidentale, sopportandone anche i sospetti e le battute quando non l’esplicita discriminazione, il fratello Rashid presenta a Mattia una versione più radicale dell’Islam che il ragazzo italiano sente di abbracciare per dare risposte alla sua inquietudine esistenziale. In Rashid, Mattia trova un altro fratello e un’altra famiglia, che tuttavia gli richiedono progressivamente l’isolamento dal suo mondo e dai suoi affetti, fino ad arrivare ad una deriva violenta. Mattia si deve confrontare con l’ennesima prospettiva di tradire. Ma tradire chi?
Il film indaga il progressivo cambiamento di Mattia e il tema iniziale del traditore viene sviluppato abilmente da una sceneggiatura che, riuscendo quasi sempre a non caricare eccessivamente i toni del dramma, moltiplica all’infinito i livelli di tradimento evitando facili semplificazioni: Mattia non è infatti il solo traditore (e traditore verso l’Occidente o verso l’Islam a cui si è appena convertito?), Rashid considera quelli della Moschea e Murad peggio dei miscredenti e, a loro volta, questi lo guardano con progressivo sospetto come qualcuno che si è allontanato dalla corretta interpretazione dell’Islam. Il padre di Mattia tradisce i suoi stessi ideali politici contestatari di gioventù, omaggiando gli “anziani” della fabbrica dove hanno lavorato entrambi i suoi figli. Tutti i personaggi commettono piccoli o grandi tradimenti.
La macchina da presa di Federico Ferrone segue con sicuro piglio documentaristico i personaggi di La cosa migliore attraverso gli spazi del nostro Nord-Est post-industriale, freddi e sovrastanti nella loro monumentalità. Parcheggi e bar dove si cercano forme di creatività e di aggregazione, casermoni geometrici dove la vita famigliare non ha spazi di riservatezza per elaborare perdite o sentimenti di intimità, fabbriche senza più una catena di montaggio ma comunque alienanti e sempre organizzate secondo un’ottica di caporalato e nonnismo.
A questi luoghi secolarizzati fa da contraltare la moschea, almeno in teoria, perché anche questo luogo religioso è, in qualche modo, immerso nella realtà urbana occidentale, con la polizia italiana ad autorizzare chi può entrare ed uscire, controllandone i documenti. Un parallelo efficace con il divieto che viene opposto a Mattia ad entrare nella moschea in Marocco perché non ancora convertito. La sezione dedicata al viaggio marocchino del protagonista, inoltre, ci presenta quasi una migrazione al contrario rendendoci, al tempo stesso, consci della disproporzione di mezzi di chi quella rotta la affronta in senso contrario: per Mattia sono le rive marocchine a rappresentare una speranza, che contempla da un sicuro traghetto.
Le riprese di questi luoghi e di queste atmosfere sono sicuramente i punti di forza del film, ma La cosa migliore funziona anche come prodotto di genere, un thriller, capace di costruire una narrazione ambigua sulla scelta finale del protagonista che, oltre a tenere il pubblico nel dubbio, riesce anche a far sospendere il giudizio su scelte che siamo abituati e invitati a condannare a prescindere.