Un volto allo specchio, una risata che si trasforma in grido: l’ombra di una ritrovata complicità è pronta a tramutarsi in un sentimento opprimente. L’incontro in sogno tra due giovani diventa il pretesto per raccontare la cronaca di un amore, o meglio, dell’amore e delle sue aspettative. Una ragazza (interpretata da Zhanel Sergazina) si lega a un giovane scrittore (Abylai Maratov) nel tentativo di sperimentare una passione sempre più profonda, estrema ed esclusiva, sia affettiva che sessuale. La deriva è vorticosa, rapida, inarrestabile, e un gioco di manipolazioni e sottomissioni ha inizio, per l’uno e per l’altra.
La passione si trasforma in un percorso crudele che fa tabula rasa del passato e rinchiude i due amanti in un appartamento, alla ricerca di una simbiosi tossica e artificiale. Infliggersi dolori sempre più acuti sarà un modo perverso e ostinato per inseguire un’idealizzazione corrotta, un’immagine dell’amore che scavalca ogni originaria tenerezza. Ma un telefono, ogni tanto, squilla, e la scelta di continuare o meno il sogno (e di trasformarlo in realtà) si rivelerà sintomo di dilemmi esistenziali al contempo antichi e attualissimi.
Realtà, fantasia e tutta la tensione che persiste quando le due dimensioni si sovrappongono: a ben vedere, la trama di La chiamata dal cielo potrebbe essere considerata la summa di gran parte della poetica di Kim Ki-duk. Girato nel 2019 in Kirghizistan (il film è recitato in russo) e portato a termine dopo la prematura scomparsa del regista per complicazioni da COVID-19, Kõne taevast finisce per rappresentarne il testamento. Ma se il girato è tutta farina del suo sacco, le scelte legate alla finalizzazione dell’opera e alla sua post-produzione — dal bianco e nero al montaggio audio-video — sono state affidate completamente agli amici e colleghi Audrius Juzeenas, Karolis Labutis e Sangam Panta.
È per questo motivo che sullo schermo non si leggerà mai “un film di”, bensì “tributo a” Kim Ki-duk. Una questione di cura e rispetto, come ammette anche Artur Veeber della Estofilm sul palco di Venezia 79, riguardo a tutte le scelte prese senza l’avallo dell’autore. E con tutta probabilità sono proprio questi aspetti a stridere con un film che, diversamente, si presenta come Kim Ki-duk al 100%. Ma se anche qualche meccanismo finisce per cigolare in La chiamata dal cielo, non c’è dubbio che si tratti di un film importante nella sua semplicità. Un’opera che gioca sulle riduzioni, dalla durata alla trama, e che riesce comunque a diramarsi e articolarsi a dismisura, toccando corde profonde attraverso un’inquietudine costante.
Non c’è dubbio che La chiamata dal cielo risenta ancora dell’approccio esorcizzante e catartico che ha caratterizzato tutto il cinema di Kim Ki-duk dopo la traumatica esperienza sul set di Bimong (Dream) nel 2008. Ed è sorprendente come in un film così minimale (più che “grezzo”), si facciano altrettanto potenti e impattanti i simboli che lo legano a filo doppio con l’odierno. Le pulsioni oniriche si rivelano divinatorie non solo nel percorso narrativo ma anche e soprattutto nel raccontare la violenza dei desideri.
Gelosie, mortificazioni, controllo, rabbia e sadismo si intrecciano in un ciclo ideale che dal primo incrocio di sguardi, dalla germinazione delle pulsioni erotiche, si esaurisce nell’arco di dieci giorni attraversando le fasi più buie e oscene possibili. E questi corsi e ricorsi (storici) diventano anche una grande riflessione sul nostro tempo, sull’isolamento, sulla reclusione, e sui demoni pronti a spezzare le catene della mente.
“Che cos’è la vita? Cos’è la giovinezza? Che cos’è la vecchiaia? Tutti gli esseri umani invecchiano e alla fine muoiono. Più ci si avvicina alla morte, più gli esseri umani sentono la mancanza e ricordano la loro giovinezza. Mi manca la giovinezza dei miei vent’anni. Tuttavia, poiché ho commesso molti errori in gioventù, se potessi tornare indietro nel tempo, vorrei davvero agire bene. Ma la vita non può mai tornare indietro.” Le parole impresse sullo schermo all’inizio di La chiamata dal cielo sono fondamentali per collocare questo tassello di Kim Ki-duk all’interno della sua vasta filmografia.
In un film che mette al centro due personaggi nel tentativo di rappresentare un’irriducibile nemesi storica, Kim Ki-duk ci parla della forza spietata della volontà, scegliendo di raccontare ancora una volta i coni d’ombra dei sentimenti. Un'ultima piccola, grande lezione: dopo la morte, oltre la morte.