Cronache di cinefilia londinese. Chi meglio di Wes Anderson e Tilda Swinton potrebbe raccontare la magia del cinema? Celebri per l’unicità ed eccentricità che li caratterizza, i due, da autentici cinefili, hanno guidato alcuni giorni fa il pubblico del British Film Institute attraverso titoli insoliti, partendo dal fiammeggiante universo di Micheal Powell ed Emeric Pressburger. Fondatori della casa di produzione Archers e attivi principalmente tra gli anni '40 e '50, Powell e Pressburger realizzarono racconti dominati da toni fantastici e romantici, distaccandosi dal forzato realismo tipico del cinema britannico di quel periodo. Uno degli aspetti più interessanti della loro produzione è il modo in cui lo sguardo straniero dello sceneggiatore Emeric Pressburger (un ungherese) riusciva a tradurre con poeticità la realtà inglese. Tra i titoli più famosi del duo, Un racconto di Canterbury (1944), Narciso Nero (1947), Scarpette Rosse (1948) e Scala al paradiso (1946). Ed è con una sequenza da Scala a paradiso che Wes Anderson e Tilda Swinton hanno dato inizio a questo viaggio alla scoperta dei film che amano.
In Scala al Paradiso la commistione tra realtà e fantasia tipica della filmografia di Powell e Pressburger raggiunge l’estremo. La pellicola si apre con l’aviatore Peter Carter (David Niven) che invia un SOS alla radio; il suo mezzo, colpito dalla contraerea, sta precipitando. Al messaggio risponde June, radiotelegrafista americana, che lo convince a saltare dall’aereo in fiamme per tentare di salvarsi. Nella scena successiva, Peter si ritrova miracolosamente illeso su una spiaggia. La sua sorte doveva però essere un’altra: gli agenti celesti hanno commesso un errore e l’uomo è sopravvissuto. Nell’Aldilà si discute se continuare a far vivere Peter o se condurlo in paradiso.
L’alternarsi tra reale e fantastico della storia è, secondo Anderson, il punto di forza dell’intera produzione di Powell e Pressburger: “Alcune delle loro pellicole hanno un tono molto naturalistico, quasi da documentario, come ad esempio The Edge of the World (inedito in Italia). Anche So dove vado è soprattutto girato in esterne, in luoghi reali. Allo stesso tempo però, i due creavano set grandiosi e surreali come in Narciso Nero”. In Scala al paradiso, come in Scarpette rosse, si ha un notevole utilizzo di effetti speciali: “C’è una scena in cui il personaggio di Niven è sottoposto ad un’operazione al cervello e l’inquadratura mostra la palpebra che si chiude dall’interno” ha spiegato la Swinton “si vede chiaramente che è fatto a mano, ma è questo il suo fascino”.
Anderson: “Faccio parte di quella generazione di registi che è arrivata al cinema dopo l’avvento degli effetti speciali. Per questo sono affascinato dal modo in cui autori come Jean Cocteau e Micheal Powell realizzavano il trucco direttamente in macchina: è come vedere una magia che avviene nella macchina da presa. In Scarpette rosse c’è una scena in cui le scarpette si alzano da terra e, rallentando la sequenza, si vede esattamente com’è stato ottenuto l’effetto, ed è affascinante. In un certo senso, risulta più credibile degli effetti speciali di oggi”.
La conversazione è proseguita con un altro titolo del duo degli Archers, il già citato So dove vado. Caratterizzato da un linguaggio decisamente più naturalistico rispetto a Scala al paradiso, il film racconta l’incontro tra una viziata ragazza borghese (Wendy Hiller) e l’apparentemente burbero Torquil Mcnail (Roger Livesey). L’atmosfera romantica dell’isola scozzese che fa da sfondo alla vicenda, finirà per far innamorare i due. “So dove vado è un capolavoro, uno dei grandi film sulla Scozia, scritto da un ungherese e diretto da un inglese”, ha detto con ironia la Swinton, “Powell e Pressburger sono stati però capaci di catturare certi aspetti di questo territorio usando ancora una volta la commistione tra mito, romantico e fantastico. C’è una scena meravigliosa in cui la protagonista prende il treno notturno per raggiungere la Scozia: quando si addormenta immagina il treno mentre attraversa le colline, è un episodio così romantico, accentuato dalla musica”.
Anche se Powell e Pressburger sono oggi considerati tra gli autori più importanti della storia del cinema, la critica dell’epoca riservava recensioni prevalentemente negative alle loro pellicole. La riscoperta e rivalutazione della filmografia degli Archers avvenne molto dopo, grazie alla retrospettiva del 1970 del British Film Institute e all’interesse di Martin Scorsese, che introdusse i film di Powell e Pressburger negli Stati Uniti, mostrandoli agli autori della nuova Hollywood (Francis Ford Coppola, Brian De Palma, George Lucas e Steven Spielberg). “Ho conosciuto Powell e Pressburger grazie a Martin Scorsese” ha dichiarato Anderson “anni fa, la Criterion Collection lanciò una serie di DVD in cui alcuni registi commentavano i loro film. In quelli di Scorsese veniva fatto continuamente riferimento a Powell e Pressburger, così iniziai ad esplorare la loro filmografia. Scorsese conobbe Powell personalmente e fu responsabile del restauro de L’occhio che uccide”.
Il film, diretto da Powell nel 1960 dopo la separazione artistica da Pressburger, fu oggetto di pesanti stroncature che sancirono, almeno temporaneamente, la fine della carriera del regista. Ironicamente, la pellicola è ora considerata una delle più importanti riflessioni sul fare cinema. Swinton: “Dopo L’occhio che uccide, Michael Powell non lavorò per molto tempo e fu ridotto a vivere in una casa mobile da qualche parte in Inghilterra. Quando Coppola ebbe l’opportunità di dare un premio ad un regista europeo scelse Powell, ma fu difficile rintracciarlo. Coppola lo invitò a San Francisco come consulente della sua casa di produzione Zoetrope. Nel 1990 avrei dovuto lavorare con Michael Powell in un video dei New Order, ma purtroppo morì prima che iniziassero le riprese”.
Dal sorprendente lavoro degli Archers, l’attenzione si è spostata sull’altro grande protagonista del cinema inglese di quegli anni, gli Ealing Studios. Tra il 1940 e il 1950, in degli studi cinematografici poco fuori Londra, vennero realizzate alcune delle commedie più memorabili dell’epoca tra cui, Passaporto per Pimlico (1947), L’incredibile avventura di Mr Holland (1951) e La signora omidici (1955). Tra i volti più celebri degli Ealing Studios c’era Alec Guinness. È ad un film in cui Guinness è assoluto protagonista che Anderson e la Swinton si sono detti particolarmente legati; in Sangue Blu (1949), uno dei maggiori successi degli studi, l’attore interpreta otto personaggi dando vita a una black comedy dai risvolti inaspettati. “L’ho visto per la prima volta in televisione. Alec Guinness che interpreta ogni membro della famiglia è eccezionale” ha dichiarato la Swinton “vengo da una famiglia in cui ci assomigliamo tutti e in questo senso mi sento molto vicina al film. La sceneggiatura è scritta magistralmente”. “Gli Ealing Studios sono stati qualcosa di molto speciale” ha aggiunto Anderson “non credo che possano essere paragonati a nessuno studio contemporaneo. Avevano una voce molto importante e originale”.
Dall’Inghilterra del dopo guerra, la successiva scelta di Anderson ci ha trasportati nell’India di Satyajit Ray con Aranyer Din Ratri (1970). È Ray ad aver fatto conoscere il cinema indiano a livello internazionale con Il lamento sul sentiero (1955) e i successivi L’invitto (1956) e Il mondo di Apu (1959), che vanno a comporre la trilogia di Apu. Anderson ha più volte affermato di ammirare il cinema di Ray, citando la pellicola del 1964 Charulata, tra le ispirazioni per alcune scene di Moonrise Kingdom: “Ho visto per la prima volta questo film quando l’ho trovato in un negozio del New Jersey, che aveva provveduto anche ai sottotitoli. Amo le opere di Ray; Aranyer Din Ratri è molto diverso dai titoli precedenti. Mentre le altre pellicole sono in costume, questa ha un linguaggio quasi occidentale, potrebbe essere stata adattata da un romanzo americano. Parla di un gruppo di amici che partono per un weekend e, successivamente, mostra ciò che succede nelle loro vite”.
Nell’avvicinarsi alla conclusione di questa originale esplorazione cinematografica, non poteva mancare un’incursione nel rapporto creativo tra Anderson e la Swinton. Con due pellicole già all’attivo, i due hanno da poco concluso la loro terza collaborazione, l’attesissimo The French Dispatch (in uscita la prossima estate): “La scrittura di Wes è molto precisa e per un attore è semplice capire come deve essere interpretata” ha spiegato la Swinton “certi attori possono aggiungere qualcosa, ma solitamente va interpretata esattamente seguendo ciò che ha scritto Wes, è come una colonna sonora, come Shakespeare”. Anderson: “In The French Dispatch il personaggio di Tilda è totalmente diverso da come l’avevo immaginato. Ogni scena in cui appare contiene una sorpresa. È molto divertente, una creazione assolutamente autentica, piena di vita. È questo quello a cui aspiravo”.
Anderson ha poi spiegato l’origine dell’inconfondibile stile che lo contraddistingue: “Nel mio primo film, Un colpo da dilettanti, avevo persone che mi aiutavano e insegnavano; ho imparato molto da quell’esperienza. Con Owen Wilson lavoravamo a stretto contatto, ho scritto con lui i primi film e Owen li ha anche interpretati. Abbiamo provato Un colpo da dilettanti per quattro anni e tagliato tante pagine di sceneggiatura. Dopo il primo film, diventi consapevole dei tuoi errori, quindi con Rushmore ho dovuto dare il meglio perché sentivo che non c’era possibilità di tornare indietro. Ho voluto farlo nel modo in cui me lo ero immaginato; in seguito, probabilmente, il mio stile è diventato più estremo”.
Nell’ultima clip scelta dai due, tratta da Donne di altri uomini (1931), James Cagney è protagonista di una divertente sequenza di danza. “Rubo sempre qualche scena da questo film” ha rivelato Anderson, concludendo con tono decisamente allegro questa serata.