Ignorato in patria, acclamato all’estero, riscoperto troppo di recente, considerato il primo horror italiano insieme a I vampiri di Freda, La maschera del demonio non ha ormai più bisogno di presentazioni. La prima opera accreditata interamente a Mario Bava nasce dall’adattamento di un racconto di Gogol’ e dal successo delle coeve produzioni dell’inglese Hammer, ma si discosta tanto da queste quanto dai precursori targati Universal sin dallo splendido incipit omaggiato apertamente, tra gli altri, da Le streghe di Salem.

L’ambientazione non si discosta dall’horror del periodo, influenzato a sua volta dalla letteratura romantica-gotica ottocentesca europea, per cui l’interpretazione degli attori è caratterizzata da una gestualità fortemente melodrammatica e il lessico è spesso altisonante, in accordo con l’estrazione sociale dei protagonisti.

L’orrore della vicenda narrata affonda le proprie radici nella visione occidentalizzata del folklore est-europeo, popolarizzato dal Dracula di Stoker e tuttora rimaneggiata (gli strigoi di The Strain). A discapito della potenziale ricchezza di questo patrimonio culturale – si pensi a Otesánek di Jan Švankmajer – anche il primo film dell’orrore sovietico, il Vij del ‘67, è curiosamente tratto dal medesimo racconto di Gogol’.

L’eccezionalità di La maschera del demonio non è dovuta all’originalità narrativa, piuttosto all’incredibile perizia tecnica di Bava, curatore anche degli effetti speciali, e dalla conseguente concretezza materiale della sua messinscena. Realizzato con mezzi esigui, La maschera del demonio è infatti una lezione imprescindibile di ottimizzazione del budget: basti pensare che l’intera cripta presente nel film è una stanza di circa nove metri quadrati e che tutte le scenografie sono cartapesta mascherata da macchine per il fumo.

Il forte impatto estetico dell’opera si deve alla formazione di Bava come direttore della fotografia e alla sua ineguagliata creatività artigianale. Con un’attenta gestione delle fonti di luce e dei movimenti della macchina da presa, il regista sanremese valorizza la narrazione e i suoi interpeti, in particolare la britannica Barbara Steele, che a seguito di questo film diverrà un’icona del cinema horror al pari di Vincent Price.

L’intera filmografia di Bava è costellata di soluzioni semplici e originali per creare effetti che hanno fatto scuola – ad esempio la trasformazione del viso della Steele realizzata sovrapponendo filtri sull’obiettivo della macchina da presa, o la polenta usata per simulare la lava in Ercole al centro della Terra – e non è quindi un caso che questa sua opera prima venne proposta negli Stati Uniti insieme a La piccola bottega degli orrori di Roger Corman, anche se non avrebbe sfigurato neppure a fianco del più macabro Herschell Gordon Lewis.