Luciano Emmer si avvicina alla storia dell’arte indagandone le forme e la forza comunicativa fin dagli esordi con Racconto da un affresco (1940), non un documentario sulla Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova, ma un film sull’arte, un’espressione spontanea nata dal fascino esercitato dalle arti figurative e dalla necessità di fare del cinema, rendendo cinematografico ciò che per natura è privo di movimento. Nonostante i pochi mezzi a disposizione, e se è vero, come sostiene Emmer che “la miseria aguzza il talento”, per fare un film “bastava saccheggiare Giotto: la sequenza degli episodi (la sceneggiatura era già lì pronta) i volti dei protagonisti (senza necessità di ricorrere a un costoso casting) erano già fissati nelle espressioni giuste”. (Luciano Emmer, Quel magico lenzuolo blu, 1997). (Approfittiamo per ricordare il Fondo Luciano Emmer della Cineteca di Bologna).

La scelta di Giotto è stata con molte probabilità involontariamente dettata dalla Mostra giottesca del 1937 e vicina al pensiero di Lionello Venturi, che Emmer conosce (lavorerà anche con il figlio Lauro) e del quale non ignora certamente il libro Il gusto dei primitivi (1926) “che riafferma l’arte come espressione diretta del sentimento: a riprova, anche gli scenari che il regista tratterà negli anni (Paolo Uccello, Piero della Francesca, Beato Angelico, Carpaccio, Botticelli e Leonardo)”. (Paola Scremin in Parole dipinte. Il cinema sull’arte di Luciano Emmer, 2010)

Venturi considera una delle condizioni necessarie per comprendere i primitivi “il riconoscimento della “rivelazione” nel processo creativo dell’opera d’arte” propriamente suggerita “dalla natura o l’idea, sono esse che comandano, ispirano, emanano la divinità della creazione” artistica, quasi un processo mistico che trova nell’estasi creativa “una esaltazione al di sopra della vita normale, al di là di ogni conoscenza finita, che assomma ogni impressione d’infinito, che assorbe il singolo nell’universale”. (Lionello Venturi, Il gusto dei primitivi, 1926)

È negli affreschi di Giotto che Emmer (i primi tempi affiancato da Tatiana Graunding, sua futura moglie, ed Enrico Gras) ritrova un linguaggio universalmente condiviso, inalterato nonostante il passare dei secoli; lungi dal raccontare l’evoluzione e il messaggio dell’opera d’arte in modo didascalico ed erudito, mostra più semplicemente la “realtà umana di allora che è anche quella di sempre”, volti ed emozioni che il regista non considera così distanti da quelle dei protagonisti ripresi “girando sulla spiaggia di Ostia la vicenda apparentemente spensierata di una Domenica di agosto”. (Bianco e Nero, n. 8-9, 1950)

L’impotenza del genere umano, “il dramma degli uomini com’era sentito da Giotto, o da Bosch, o da Carpaccio, o da Goya, o da Piero della Francesca, o dall’Angelico” lo spingono a registrare sulla pellicola la Strage degli innocenti e il volto straziato dal dolore degli angeli degli Scrovegni, violenza e distruzione che anni dopo troveranno nel tenebroso viaggio attraverso I disastri della guerra di Goya la massima espressione.

Per Racconto da un affresco vengono utilizzate le riproduzioni fotografiche Alinari in bianco e nero, sicuramente lo strumento più economico per fare del cinema, a questo si aggiungono una macchina da presa Pathé del 1913 di legno, l’obiettivo, instabile, è fissato da due strisce di nastro isolante e spesso il fotogramma è fuori fuoco. I poveri mezzi creano numerosi inconvenienti risolti con pazienza certosina da Emmer e compagni: “il meccanismo del passo a uno era costituito da una catena di bicicletta azionata per lo scatto da una catena di gabinetto. (…) Il montaggio del film lo feci su una vecchia moviola col pianale di legno, che era in panne due giorni sì e uno no. (…) Questo prezioso laboratorio mi era stato offerto a titolo gratuito da un pioniere del cinema, Ettore Catalucci. Langlois mi ha sempre rimproverato di non aver conservato questi reperti storici; li avrebbe presentati nel suo favoloso museo, come primo esemplare della multiplane-camera-crane di Walt Disney”. (Luciano Emmer, Quel magico lenzuolo blu, 1997)

Racconto da un affresco sarà il primo di una lunga serie di film sull’arte: Paradiso terrestre (1940), sul Giardino delle delizie di Bosch; Destino d’amore, ovvero, piccolo mondo al platino (1942), protagoniste le cartoline illustrate al platino; Il Cantico delle creature (1943), la vita di San Francesco narrata attraverso gli affreschi di Giotto, e Guerrieri (1943), ricostruzione di una battaglia ideale perlustrando le opere di Piero della Francesca, di Paolo Uccello etc… Queste pellicole riscuotono i primi successi in Francia, grazie anche all’amichevole sostegno di Henri Langlois. André Bazin, colpito dall’originalità dei lavori di Emmer dirà: “La trovata fondamentale di Emmer, quella da cui tutto deriva, è di non mostrare mai i limiti dell’oggetto pittorico, ovvero di inserire lo schermo nel quadro, e dunque di negare quest’ultimo. L’operazione comporta una fase chimica e una fisica. Da prima mutare la pittura in fotografia e in seguito trattare la nuova immagine esattamente come un universo, presentarcela successivamente come altrettanti frammenti di un mondo indefinitamente esteso (…) Da questo momento il cineasta ci ha psicologicamente introdotti nel mondo dell’artista”. (Bianco e Nero, n. 8-9, 1950). La voce over, richiesta dall’arrivo delle prime opere su commissione, prende il posto delle didascalie, rompendo l’aura sperimentale delle prime pellicole; a rendere il prodotto commerciale non basta che i dipinti statici siano animati dai movimenti di macchina, dal montaggio, dall’incessante messa in luce dei particolari pittorici e dall’accompagnamento della colonna sonora che continua ad assumere un ruolo di primissimo piano.

Le ricerche di Emmer proseguono e nel 1952 con Leonardo Da Vinci si aggiudica il Leone d’Oro a Venezia, ancora una volta quel particolare procedimento chimico e fisico elogiato da Bazin sembra avere stregato gli spettatori. In questa pellicola l’opera finita dell’artista non viene sezionata per estrapolarne i dettagli, ma, grazie a una moderna animazione dei disegni che prendono vita sulle pagine seppiate dei celebri Codici, lo spettatore ha l’idea di osservare la creazione delle linee tracciate da Leonardo in tempo reale.

Seguirà Picasso (1954), ripreso nel 2000 al quale si aggiunge l’accompagnamento della voce del regista, libero di raccontare rivivendo le impressioni suscitategli dall’incontro con l’artista avvenuto nella casa laboratorio di Vallauris. Questa volta è la mano di Picasso in persona a sostituire le animazioni dei Codici leonardeschi, mostrando all’occhio della telecamera le pause che scandiscono la realizzazione di un’opera scultorea e pittorica: “Picasso era un attore nato (…) Lo seguivo con discrezione senza mai interrompere l’arabesco creativo delle sue mani; quando finiva uno chassis di pellicola si fermava in paziente riposo in attesa di ricominciare senza mai perdere l’ispirazione, anche se nel frattempo progettavamo una nuotata mattutina sulle spiagge di Golfe Juan o la cena notturna in una delle trattorie della costa con gli amici”. (Luciano Emmer, Quel magico lenzuolo blu, 1997)

Nel 1957 nasce Carosello, ed Emmer, reduce dalla felice esperienza con Picasso, gira sette sketch per la Fabbri, in cui Un pittore alla settimana (Renato Guttuso, Corrado Cagli, Carlo Levi, Giuseppe Capogrossi etc…) viene chiamato a realizzare un’opera nei sette minuti dello spot pubblicitario.

Ricorderei tra i numerosi filmati che vedono Emmer protagonista di un personalissimo percorso di conoscitore e amante dell’arte, l’approfondimento televisivo Io e… (1972) nel quale si chiedeva a dei personaggi noti di parlare dell’opera d’arte a cui per diverse ragioni erano maggiormente legati, tra i vari il regista ricorda l’incontro con Cesare Zavattini, Goffredo Parise e Federico Fellini. Queste “passeggiate romantiche a due” in cui Emmer si confronta con i sui ospiti sono distanti anni luce dal documentario tradizionalmente inteso: “Non ho mai fatto dei documentari. Stranamente, i miei non sono documentari: Giotto, Bosch, i miei film sull’arte sono dei film. Sono dei racconti. Forse gli unici documentari che ho fatto nella mia vita sono dei film lungometraggio. Domenica d’agosto si può dire che è un documentario sui romani che andavano al mare, alla spiaggia in agosto (…) Camilla è un documentario sulla crisi della famiglia, realizzato quarant’anni prima che ciò avvenisse, come adesso. La ragazza in vetrina è un documentario sui minatori immigrati, non clandestini in Belgio, nelle miniere, perché i belgi non ci andavano. Ci andavano gli italiani, che erano miserabili”. (Conversazione con Luciano Emmer, in Il nuovo spettatore, 2002)