Di storie di teppisti in erba, criminali bambini e infanzie rubate, il cinema italiano ne ha raccontate tante. Specie nell’ultimo decennio, in cui la seconda giovinezza di un genere – il gangster movie, declinato alla partenopea – si è ibridato con il romanzo di formazione, e con un gusto che fa del realismo sociologico il suo punto di vista privilegiato sul mondo.
La paranza dei bambini, tratto da Roberto Saviano, diretto da Claudio Giovannesi (insieme a Maurizio Braucci, i tre hanno vinto il Premio per la Miglior Sceneggiatura al Festival di Berlino 2019), presenta, almeno a livello progettuale, i caratteri del filone, di cui condivide in parte iconografia e immaginario: temi e meccanismi produttivi non sono distanti dai molti epigoni di un cinema del reale in versione borgatara (di cui non mancano esempi virtuosi, basti pensare a La terra dell’abbastanza, o A Ciambra), e il rischio implicito di questo nuovo adattamento era quello di confezionare un’opera corretta, ma derivativa.
La differenza, invece, la fa tutta lo sguardo: Giovannesi – che già nel precedente Fiore si era dimostrato capace di una sensibilità non comune nel cogliere i turbamenti della preadolescenza – è più interessato ai moti interiori che alle dinamiche malavitose. Ricorre al simbolismo con mano leggera, senza forzare la realtà cronachistica (l’incipit è esemplare: quale metafora migliore dell’innocenza perduta di un albero di Natale trafugato, trasformato in un rogo intimidatorio che è rito tribale e, al contempo, affermazione identitaria?).
Ma soprattutto mette in discorso l’età dei suoi protagonisti con invidiabile lucidità: né mero dato anagrafico, né materiale da spettacolarizzare senza freni, la spensieratezza negata ai ragazzini del rione Sanità viene inquadrata in un discorso di più ampio respiro, imperniato sull’irreversibilità della scelta e sulla crudeltà come strumento necessario alla sopravvivenza. Allo stesso modo il lavoro sul sonoro: l’ambizione etnografica viene salvata dall’uso pervasivo del dialetto – essenziali i sottotitoli, almeno per i non napoletani – mentre la musica, più libera da una logica puramente naturalistica, costituisce un controcanto ideale alla vicenda, ora per analogia ora per contrasto.
La cifra del regista si diluisce così senza fatica nell’impalcatura di genere, che viene rispettata nella gestione dei tempi drammatici e nell’andamento narrativo, fino al climax del pre-finale. L’epilogo, invece, è pura visione personale, ma non è difficile immaginarne il seguito.