Premiata con l’Oscar alla carriera nel 2010 e con quasi 500 titoli tra film diretti e prodotti, l’opera di Roger Corman rimane tra le più significative nel panorama del cinema americano, inizialmente snobbata dalla critica ufficiale, poi oggetto di un’incondizionata ammirazione trasversale da parte di un pubblico più o meno colto, studiosi, cinefili, critici e registi.
Tra i nomi più influenti del cinema indipendente nazionale, Corman è stato pioniere di un nuovo modo di fare e pensare film, caratterizzato da budget e tempi di lavorazione irrisori (appena 30000 dollari e due giorni di riprese per il cult del 1960 La piccola bottega degli orrori) ma carico di sottotesti profondi e intelligenti.
“Noi siamo artigiani e cerchiamo di fare del nostro meglio” affermava il soprannominato “Re dei B-Movie” che sin dagli anni Cinquanta, con intraprendenza e inventiva, sdogana questo cinema elevandolo qualitativamente senza però perderne la sua originale natura povera e artigianale. Anzi, facendo leva proprio su tali limiti materiali, Corman li trasforma nei punti di forza di uno stile coinvolgente quanto riconoscibile: duro, diretto e scarno, giocato su un linguaggio immediato e un ritmo di montaggio sempre sostenuto, con lunghi dialoghi esplicativi, furbi effetti visivi e rumori fuoricampo a creare suspense. Un cinema che gioca col cinema, rispettoso dei canoni ma al contempo loro irriverente innovatore.
Difatti il regista riprende gli elementi dell’immaginario coevo proposto dalle major hollywoodiane, estremizzandoli e rielaborandoli in un uso apparentemente tradizionale del genere di riferimento che mostra però evidenti cenni di rinnovamento al suo interno, ponendo così il proprio lavoro in relazione alla pop-art warholiana e quale precursore del cinema post-moderno. Quelli che altrimenti sarebbero semplici “filmetti” da drive-in Corman li arricchisce di un’acuta e precisa visione della società nazionale, di cui è in grado di mettere in luce i lati più oscuri e problematici.
Ne evidenzia lo smarrimento generazionale legato ai mutamenti sociali in atto (La ragazza del gruppo, I selvaggi o Gas, fu necessario distruggere il mondo per poterlo salvare) e le paure recondite (I vivi e i morti, Il pozzo e il pendolo, I racconti del terrore, I maghi del terrore, La maschera della morte rossa, La tomba di Ligeia che consacrano Vincent Price quale affascinante villain del cinema horror). Denuncia i limiti etici del Paese (Un secchio di sangue, La donna vespa, L’uomo dagli occhi a raggi X) e le contraddizioni interne (L’odio esplode a Dallas, unico film dichiaratamente politico nella sua produzione, analisi cruda e impietosa del razzismo americano), rileggendone e ribaltandone in definitiva il mito (La meticcia di fuoco, tra i primi western revisionisti o Il clan dei Barker, che decostruisce la visione elegiaca di un’arcaica America rurale).
Non da meno è l’attività di Corman come produttore. Fondata nel 1970, la sua New World Pictures diventa in breve una vera e propria factory cinematografica che lancia la carriera di una ricca schiera di emergenti, tra cui Martin Scorsese (America 1929: Sterminateli senza pietà), Monte Hellman (Beast from Haunted Cave, La sparatoria, Cockfighter), Jonathan Demme (Femmine in gabbia, Crazy Mama, Fighting Mad), Ron Howard (Attenti a quella pazza Rolls Royce) poi affermatisi con il beneplacito di un maestro “orgoglioso di essere superato dai propri ‘diplomati’”.
Compare anche in brevi cammei in alcuni film di registi a lui legati, come Francis Ford Coppola (Il Padrino – Parte II), Wim Wenders (Lo stato delle cose), Demme (Swing Shift – Tempo di swing, Il silenzio degli innocenti, Philadelphia, The Manchurian Candidate), Howard (Apollo 13) e Joe Dante (Runaway Daughters, La seconda guerra civile americana, Looney Tunes: Back in Action).
Con la sua società Corman è anche il distributore americano di importanti autori europei come François Truffaut, Akira Kurosawa, Federico Fellini e Ingmar Bergman: “ho sempre amato il cinema d’autore per affinità e sensibilità artistica. Amavo questi film e volevo che girassero anche in America”. Un interesse curioso, data la produzione notevolmente diversa del regista; ma in fondo neanche troppo, se si pensa al suo come a un cinema sì immediato e apparentemente poco intellettuale, ma mosso dal “grande amore per i film e le emozioni che mi suscitano sullo schermo”.
Un amore però da tempo non più corrisposto, con i significativi mutamenti subiti dal mezzo cinematografico negli anni Ottanta su cui ampiamente riflette il documentario di Alex Stapleton Corman’s World: Exploits of a Hollywood Rebel (2011). L’omaggio al guru dell’indie statunitense ne ricostruisce la carriera e le vicissitudini che hanno da sempre accompagnato la realizzazione dei suoi film più famosi, modelli esemplari di guerrilla filmmaking oggetti ancora oggi al contempo di studio e di culto. Tra il celebrativo e il nostalgico, attraverso interviste a collaboratori e amici (tra cui Scorsese, Jack Nicholson, Robert De Niro, Peter Fonda, Peter Bogdanovich) e allo stesso Corman, il film di Stapleton riflette su un cinema che ormai non esiste più a causa dei cambiamenti verificatisi nell’industria della produzione audiovisiva.
L’affermazione di grandi film basati più “sugli effetti speciali che sulla storia da raccontare” porta Corman – come successe a George Méliès – a non poter più rispondere alle nuove esigenze commerciali. Questo però non per impossibilità tecnico-produttive, come per il pioniere del cinema francese, bensì per una questione puramente etica e artistica. Trovando in Guerre stellari il segno lampante di tale mutamento, il regista sostiene che: “i grandi studios cominciarono a capire che ciò che facevamo noi con pochi dollari, loro potevano farlo con milioni”, esprimendo così il disappunto verso le nuove prepotenti logiche di mercato, che hanno reso vetusto in poco tempo tutta la tradizione artigianale del cinema d’exploitation, che trova ora un proprio pressoché unico canale di distribuzione nell’home-video.
Un principio antitetico alla sua idea di cinema, rivolto a un pubblico attivo che condivida in sala e non singolarmente a casa le emozioni suscitate dalle immagini sullo schermo: “Internet può aiutare a far uscire certi film dalle nicchie di mercato”, ma non a riscoprire la concezione di spettacolo collettivo ancora oggi alla base dell’arte cinematografica di cui Corman è stato uno dei maggiori rappresentanti.