Marianne, una giornalista che non vuole più scrivere, e il compagno Jean Paul, uno scrittore in crisi che si è dato alla pubblicità, stanno trascorrendo le vacanze estive in una bella villa con piscina sulle colline di Saint-Tropez. Ricevono la visita a sorpresa di Harry, un loro amico parvenu e dongiovanni, e della figlia diciottenne, Penelope, e chiedono loro di restare per qualche giorno. Quello che doveva essere un piacevole periodo di vacanza diventa, letteralmente, un gioco al massacro fatto di vecchie rivalità che si risvegliano, tradimenti incrociati, seduzioni senza sentimento.
Il punto di partenza e i personaggi de La piscina (1969) non sembrano certo poter far ambire il film di Deray al titolo “di culto” con cui viene spesso insignito: è difficile farsi piacere i protagonisti che sembrano incarnare la frase sartriana secondo cui “l’inferno sono gli altri”. In contrasto con il ritmo narrativo generalmente dilatato, impresso dalle lunghe inquadrature fisse, improvvisi stacchi sui primi piani dei protagonisti costruiscono un gioco di sguardi che indaga le dinamiche sempre più disfunzionali e di svalutazione reciproca del gruppo.
Fermandosi sui quattro protagonisti con inquadrature lunghe e statiche a sottolinearne la paralisi politica, culturale e sentimentale, la macchina da presa di Deray sostiene abilmente questo ritratto feroce di una borghesia lontana dalle istanze di cambiamento del contemporaneo Maggio francese. La voglia di libertà si traduce in comportamenti gratuiti e prevaricatori, l’opposto del rinnovamento sociale e comunitario del movimento del 68. La sceneggiatura di Jean-Claude Carrière, che sarà attento osservatore delle nevrosi borghesi anche per Buñuel, punta sulle prolungate assenze di dialoghi e su scambi banali che mettono in evidenza la noia esistenziale e la vacuità affettiva dei protagonisti.
La dimensione divistica de La piscina, sottolineata anche grazie agli abiti di André Courrèges, allora all’apice del suo successo come stilista, e il mobilio di bordo piscina di Gae Aulenti, rende, tuttavia, seducente la mancanza di fascino discreto dei personaggi. Osserviamo Romy Schneider compiere la transizione dai ruoli leggeri del ciclo di Sissi e dalle ricche produzioni hollywoodiane di Preminger (Il Cardinale, 1963) e di Donner (Ciao Pussycat, 1965) verso un cinema più intimista e interpretazioni di maggiore spessore psicologico.
Rimaniamo affascinati dal suo ricongiungersi con Alain Delon, con cui aveva avuto una tormentata relazione sentimentale finita pochi anni prima, anche se i due rimarranno sempre legati. Già divo di fama mondiale, reduce dal successo di Frank Costello (1967) e dalle interpretazioni “d’autore” con Visconti e Antonioni, Delon impose alla produzione la partecipazione di Romy Schneider. Completano il cast il seduttore Maurice Ronet, attore feticcio di Malle e Chabrol, e Jane Birkin, appena vista in topless in Blow Up (1967) di Antonioni, al centro delle cronache mondane della Swinging London e presto anche d’oltralpe.
Fin dalla prima scena, con il lento indugiare della macchina da presa sul corpo disteso a prendere il sole a bordo piscina di Alain Delon, il tuffo di Romy Schneider e il successivo amoreggiare della coppia, siamo invitati a spiare la fisicità dei due divi e la loro iconicità come coppia. Significativamente, la scena, fino al momento prima dell’entrata di Romy Schneider, sarà ripresa integralmente nello spot di Eau Sauvage di Dior del 2010, a testimonianza della consacrazione divistica raggiunta dalla coppia Delon-Schneider grazie a La piscina. Lo spot certamente si affida al fascino di Delon ma, in chi ha appena visto il film di Deray, non può non evocare la presenza della Schneider grazie allo spruzzo finale e lo sguardo sorpreso di Delon a cercarla, con la nostalgica consapevolezza della sua definitiva assenza.