Lo smantellamento della condizione agiata della borghesia europea rimane un punto focale per il cinema di Thomas Vinterberg. Il mutare del medium a disposizione non diminuisce la ferocia del suo attacco, il rimpicciolimento dello schermo cui il prodotto è destinato non impedisce di espandere la portata della sua visione, che si allarga per abbracciare le possibilità narrative consentite dalla narrazione seriale.

Oggetto dell’occhio inquisitore non è più solo la Danimarca, ma un intero continente scrutato e messo a nudo con tutte le sue bieche contraddizioni, le sue paure latenti e le insormontabili barriere burocratiche. È una distopia non troppo distante da noi, quella che vede le autorità danesi annunciare la chiusura del Paese a causa di un imminente disastro ambientale. Le acque che abbracciano le coste hanno ormai raggiunto un livello troppo elevato perché possano essere arginate, l’intero territorio sta per venire sommerso e i cittadini sono chiamati ad un’evacuazione tempestiva.

Ecco il dramma delle Famiglie come le nostre, nuclei parentali ed affettivi al centro della storia, indotte a vivere l’improvviso tramonto di un futuro programmato secondo i canoni del benessere occidentale. La diaspora del popolo danese diviene sintesi dell’oggi e dei suoi cataclismi naturali e umanitari, descritti senza eccessi di richiami didascalici e seguendo due ordini di grandezza.

Uno su scala continentale, con evidenti riferimenti agli attualissimi traumi bellici e pandemici, riguardante il goffo operato delle istituzioni, incapaci di fornire adeguato supporto in uno stato di crisi e responsabili del sorgere di nuove situazioni di clandestinità. L’altro è invece è un approccio su scala famigliare, riguardante la dimensione umana e il dramma dei rapporti interpersonali in un contesto sconquassato da forze centrifughe che inducono alla frammentazione degli insiemi e all’isolamento degli individui.

È su questa seconda dimensione che Vinterberg lavora per la costruzione del rapporto empatico. La tragedia di un popolo costretto ad una migrazione forzata viene rielaborata attraverso il peso emotivo della lacerazione dei rapporti umani e la personalizzazione di un dramma collettivo. Compresso in uno spazio intimo di facile identificazione, il disagio universale della dissoluzione identitaria assume una forma immediatamente percepibile, in grado di limitarne la dispersione ed esasperarne la carica emotiva.

I volti spaesati dei personaggi in rotta di collisione con un tracollo esistenziale diventano così i punti di riferimento attraverso cui mappare la condizione di un’Europa alla deriva. Volti che riflettono il fallimento della costruzione di una politica comunitaria e rivelano il terribile inganno nascosto nella mistificazione capitalistica del benessere. Quando le roccaforti della felicità legata alla stabilità economica vengono inondate con il rischio di inabissarsi, ecco emergere il valore delle relazioni come ultima, irrinunciabile ancora di salvezza.

Una visione che evade il rischio di un eccessivo romanticismo, soprattutto se proposta attraverso gli essenziali meccanismi del dramma vinterbergiano, in grado di fornire un sentimentalismo asciutto e di rara intensità. Familier son vores agisce sul nostro presente come una lente analitica che non deforma, ma ingigantisce gli oggetti e li spoglia di ogni orpello superfluo, per produrre un’immagine severa ma non disperata.

Esiste ancora una speranza in questo mondo che annaspa, ma va individuata in spazi ignoti e attraverso la messa in discussione di un’esistenza poggiata su un terreno di facili certezze a due passi dal baratro.