L’uscita in sala di un film di Pedro Almodóvar può ormai essere definita ogni volta uno degli eventi cinematografici dell’anno. Perché Almodóvar è uno dei grandi maestri viventi del cinema e uno dei pochi autori che mantiene una mano riconoscibilissima e quindi ha, come diretta conseguenza, una schiera, ormai affollata, di appassionati e fedeli; l’evento, poi, diviene ancora più atteso se coincide con un film, La stanza accanto, che è il primo lungometraggio in lingua inglese all’età di 74 anni e ha già vinto il Leone d’oro a Venezia.
La morte è il cuore pulsante di questa ultima esplorazione del regista spagnolo. La morte come grande soglia dell’essere umano: l’unica ineludibile certezza che grava sulla vita come una spaventosa e assillante spada di Damocle. Almodóvar mostra quella che è l’accettazione della morte, prima vagheggiata, poi respinta, infine accolta dalla reporter di guerra Martha (una metamorfica e ancora eccezionale Tilda Swinton), che trova nell’amica scrittrice Ingrid (Julianne Moore) la persona con cui condividere le ultime settimane fino all’estremo contatto umano e, soprattutto, la sua scelta finale, quella di lasciarsi andare, di accettare l’epilogo (tanto certo quanto inevitabilmente tragico) della nostra vita.
La stanza accanto è un film a due voci (solo sporadicamente include un terzo personaggio consistente, interpretato da John Turturro), a tratti quasi una pièce teatrale, in virtù della pervasività dei dialoghi tra le due donne che vanno a comporre una vera e propria dissertazione sulla morte. Almodóvar realizza una sceneggiatura densa, capillare, razionale e profondamente analitica che viene umanizzata dalla bravura delle due attrici protagoniste.
Allo stesso tempo, proprio i testi, nel loro essere omnicomprensivi e in un certo senso ubiqui, impongono alla narrazione una parabola prevedibile che non si discosta mai veramente da un ritmo piano e monotonale, e che raramente e solo sommessamente produce variazioni emotive (un raro caso è l’interrogatorio che subisce Julianne Moore nelle scene finali: una parte che, con una vena legal thriller, risveglia lo spettatore, ma rimane soltanto un abbozzo, forse per un altro film).
Se, come abbiamo detto, il tocco del regista spagnolo si può riconoscere ogni volta istantaneamente – e La stanza accanto lo conferma nell’estetica e nella scelta delle inquadrature -, è anche vero che quest’ultima opera si diversifica anche decisamente dalle altre e questo non può che essere normalissima conseguenza del diverso medium espressivo. Nel passaggio dallo spagnolo all’inglese Almodóvar smarrisce parzialmente la visceralità e l’intenso realismo dei suoi personaggi e delle sue storie, producendo invece dei ritratti e degli spaccati umani più algidi e statuari.
Il due volte premio Oscar ricorda costantemente allo spettatore quali siano i suoi modi narrativi (l’uso ripetuto del flashback che, però, in questo caso, funziona meno che altrove), i suoi modelli e i suoi riferimenti diretti e indiretti all’interno del film, come se, appunto, non volesse smarrire la sua autorialità: e allora da Buster Keaton si arriva al ripetuto parallelismo con I morti di James Joyce e poi di John Huston, vere e proprie matrici del film. Non mancano nemmeno diversi spunti di riflessione su alcuni temi cruciali dell’attualità: quindi l’eutanasia, il riscaldamento climatico, lo sfacelo della politica. Ma vengono solo accennati e rimangono sospesi, materiale di riflessione per un altro momento.
Il risultato prodotto dalla mescolanza di questi movimenti, trattenuti verso un preciso universo narrativo ma allo stesso tempo trascinati altrove dalla forza propulsiva di una lingua che prende direzioni ed esiti diversi, è un Almodóvar differente, che colpisce sempre alla radice del cuore umano, ma lo fa passando da sentieri inediti.
Alla fine, come nel finale del più volte citato I morti, la neve scende sui personaggi confermando quello che pare essere il passaggio di Almodóvar dalla sua produzione spagnola a quella recente in inglese: ovvero il transito da una umanità calda a una fredda, dove anche gli spazi sono più geometrici e meno cangianti, in cui l’essere umano sembra essere un po’ più solo, nonostante faccia di tutto per avere qualcuno nella stanza accanto.