Presentato inizialmente alla Mostra del Cinema di Venezia del 1970, Strategia del ragno di Bernardo Bertolucci viene riproposto nella cornice veneziana nella versione restaurata a cura della Fondazione Cineteca di Bologna.  Tratto dal racconto di Borges Tema del traditore e dell’eroe, Strategia del ragno è una riflessione sul rapporto tra mezzo cinematografico e storiografia, tra messinscena e ricostruzione della memoria collettiva di una nazione.

Trasportando l’azione dall’Irlanda dell’ottocento del racconto di Borges alla pianura emiliana degli anni Trenta e Sessanta, La strategia del ragno segue Athos Magnani figlio in un labirinto di flasback e carrelli della macchina da presa nella sua ricerca dell’assassino di Athos Magnani padre, leader antifascista, ucciso in teatro in pieno Ventennio durante una rappresentazione del Rigoletto di Verdi. Tuttavia, ben presto, la ricerca del colpevole, che si suppone sia un fascista mai individuato dalle inchieste anche successive alla caduta del regime, si trasforma per Athos nel tentativo di decifrare la figura paterna. Il padre è veramente l’eroe che tutti nel paese celebrano e monumentalizzano ad ogni angolo e in ogni edificio?

Sostenuto dall’inizio del sodalizio con Vittorio Storaro e dalla recitazione ambigua ed intensa di Giulio Brogi nel doppio ruolo del padre e del figlio e di una luminosa Alida Valli nel ruolo di Draifa, Strategia del ragno condivide certamente, anche per esplicita ammissione dello stesso regista in un’intervista a Stefano Agosti, i toni psicanalitici e “l’ossessione dei film di quegli anni per una continua ricerca della definizione della figura paterna”. Si pensi a Il Conformista (1970), che Bertolucci girò interrompendo il lavoro al montaggio di Strategia del ragno, sempre di ambientazione fascista e sempre interessato all’uccisione, effettiva o simbolica, di plurime figure paterne, biologiche o di elezione.

Meno esplorata è la dimensione storiografica e politica del film. Per svelare questa strategia della messinscena dobbiamo indagare la pista meta-filmica dell’opera che esibisce, fin dai titoli di testa sui dipinti di Ligabue e dal nome fittizio del paesino in cui si svolge l’azione, Tara, la consapevolezza della propria finzione. Nella stessa intervista ad Agosti, Bertolucci parla della città di Sabbioneta, dove il film è stato per la maggior parte girato, come di un luogo “che mette in scena”. Le immagini notturne della stazione ferroviaria di Tara, come il ricorrere di immagini di ombrelli lungo tutto il film, sono chiare suggestioni magrittiane e, insieme ai binari ferroviari ricoperti di erba alla fine del film, rimandano ad una dimensione surreale.

A questi accorgimenti formali, sottolineati dai campi lunghi e lunghissimi in cui i personaggi sono immobili come in un quadro della Metafisica, si accostano precise strategie narrative che definiscono sia l’evento centrale del film che i dettagli secondari come una grande finzione: significativamente, l’omicidio di Athos Magnani non viene mostrato se non come viene ricreato dal figlio nello stesso teatro mentre assiste alla stessa rappresentazione di Rigoletto. Il progetto di Athos Magnani padre è quello di essere regista e protagonista del proprio destino e di costringere il figlio ad assumere lo stesso doppio ruolo, condizione che si rispecchia nel doppio ruolo di Brogi: diventare regista e attore della stessa messinscena e dello stesso omicidio (si veda anche la scena in cui il figlio sfregia la tomba del padre). Athos Magnani vuole trasformare “tutta Tara in un grande teatro” in cui la musica di Verdi non è fonte di identità nazionale condivisa, ma, paradossalmente, simbolo di divisione e tradimento.

Provando a ricostruire una vita d’esempio per la nazione, Strategia del ragno ci mostra, al contrario, l’impossibilità politica di offrire una versione condivisa della Storia. Il continuo intreccio di diverse linee temporali, l’interruzione e la ripresa di fili narrativi che sottolineano, anche attraverso la composizione formale delle immagini, il loro carattere fittizio, costituiscono, per usare le parole dello stesso Borges, “labirinti circolari” che sfociano in “altri labirinti ancor più inestricabili ed eterogenei”.