Caposaldo del melodramma giovanile americano degli anni Cinquanta, La valle dell’Eden è una pietra miliare nella cinematografia statunitense di quegli anni, forte del soggetto tratto dall’omonimo romanzo di John Steinbeck, la regia di Elia Kazan e l’appassionata interpretazione dell’esordiente James Dean, destinato in breve a divenire mito giovanile per numerose generazioni.
Negli anni dopo la seconda guerra mondiale Hollywood scopre un nuovo pubblico, quello dei ragazzi affacciatisi a una realtà che fino a quel tempo li aveva ignorati, esigendo ora attenzione ed ascolto data la rapida maturazione dovuta all’esperienza bellica. Paul Newman, Marlon Brando, Montgomery Clift e James Dean sono l’incarnazione di un disagio post-adolescenziale, una nuova generazione che fa i conti con adulti incapaci di capirli e una società che non riesce a intercettarne e interpretarne sogni e desideri.
Trattati da eterni bambini, giungono ora a non poter né voler più nascondere la propria adultità, scatenando conflitti fisici e verbali per manifestare sé stessi, un’espressione germinale di quella necessitata autoaffermazione che troverà nei movimenti contestatari del ‘68 una forma collettiva.
Il tratto ribelle che accomuna i personaggi di questo cinema è così l’evidente rifiuto dei miti, dei valori, delle istituzioni cardine di un’America che ormai non rappresenta più il modello giovanile, disilluso dall’infranto sogno a stelle e strisce, dalle certezze promesse e in realtà mancate, svelandone l’apparente equilibrio sotto il quale si nascondono invece disagi e paure inconfessabili.
Questi divi così tragicamente tormentati incarnano allora un senso di innocenza perduta: una colpa da espiare non propria ma ereditata dai padri, di cui la parentesi bellica è forse la più traumatica delle epifanie. Sono fallen angels disadattati, cacciati da un paradiso posticcio per aver colto il frutto dell’albero della conoscenza e aver distinto il Bene e il Male, costretti perciò a vagare raminghi appunto a Est dell’Eden.
Ecco dunque che nel conflitto familiare di Caleb con il padre Adam e il fratello Aron al centro del film può essere rintracciata la medesima sottotraccia biblica del romanzo originale, una rilettura moderna del mito di Caino e Abele entrambi desiderosi di compiacere il padre ma le cui opposte nature portano a diversi destini. Effettivamente è questo triangolo sentimentale il perno dell’opera di Kazan, che come Steinbeck è sempre attento agli ultimi, reietti, diseredati e dimenticati: raccontare il disagio di un Paese a partire dai suoi figli.
Così se Aron e Adam sono mossi da un’ottusa mentalità retrograda e bigotta che trova nella fede l’unica àncora di salvezza per orientarsi in una vita di delusioni (la fuga della moglie e madre) e sacrifici (i vani tentativi di mettersi in affari), il disagio di Caleb è mosso da non riuscire a fare propria quella vita, perché sentita come irrimediabilmente forzata, posticcia.
È lui che va a cercare la madre, esplorando così quel suo lato oscuro e tormentato nel tentativo di dare volto e forma ai propri fantasmi. L’atteggiamento sanguigno con cui si getta su ogni cosa e persona è il sintomo di un’urgenza affettiva e comunicativa che in qualche modo deve palesarsi, scontrandosi con una necessità normativa che ristabilisca ordine dove non ce n’è (“c’è un legge che lo vieta?” è il suo refrain).
Difatti l’assenza della figura materna sbilancia (come sottendono le inquadrature inclinate nelle scene coi tre al tavolo di casa) l’equilibrio familiare che permetterebbe a Caleb di essere accettato e amato dal padre quanto il fratello, affine al genitore e perciò prediletto. È in definitiva l’essere regolarmente escluso, respinto, rifiutato ad alimentare la sua rabbia e la sua convinzione di essere cattivo, sbagliato, fuori posto tanto da trovare solidarietà solo verso chi è come lui: messicani, neri o Gustav Albrecht, il tedesco oggetto di un annunciato linciaggio a ridosso dell’entrata in guerra del Paese di cui il ragazzo prende le difese inimicandosi tutta la cittadina.
Un messaggio sociale non indifferente in un periodo e una nazione così fortemente scettici e discriminatori verso chiunque non si identifichi con la maggioranza come l’America di allora e similmente di oggi, fascinosa quanto falsa terra promessa che solo un gesto estremo e traumatizzante come quello di Caleb nel finale del film può portare a risvegliare, scuotendo le coscienze assopite e forse cambiare radicalmente.