Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, un ricco saggio della dott.ssa Beatrice Balsamo, dedicata alle letture psicanalitiche dell’Hitchcock muto, appena proiettato integralmente al Cinema Ritrovato 2013. Buona lettura:
L’Hitchcock (da ora H.) del periodo inglese “è l’H. ‘sommerso’ [da Hollywood?]”, l’H. della freschezza, della intensità creativa? La BFI National Archivie ripropone al Cinema Ritrovato (Bologna dal 29 giugno al 6 luglio) il restauro di nove film muti del grande regista, nel formato originale 35mm. Così, ciò che “ritorna” [che già era familiare] ri-appare con una intensità perturbante (Unheimlich) e “nuova”. Come ogni esperienza onirica e perturbante i nove film muti rivelano a pieno il genio hitchcockiano e la sua estetica immaginaria-simbolica e anamorfica, attraverso movimenti narrativi di “condensazione” (duplicazione, inversione, scambio, distorsione, contagio) e “slittamento” (sviamento, equivoco, imprevisto, dislocazione, itinerario, ma anche orizzonte di senso e desiderio).
E l’ “anamorfico”, al di là di ogni presa e rappresentazione, del fuori campo, dell’ingrandimento-sfalsamento degli oggetti, del punto di vista di Dio, della carrellata-zoom per la vertigine della passione, la spirale del sogno, il labirinto della morte. In H., più una situazione è familiare più è suscettibile di diventare inquietante: tutto procede normalmente, nella mediocrità, fino a quando qualcuno (per lo più il protagonista principale) si accorge che un elemento del tutto, con il suo comportamento, crea una macchia, si fa macchia (i dipinti di donne bionde, rifrazione psicologica in The Lodger, la pasticceria in Downhill unica scena solare e regressiva, in opposizione a tutto il resto del film, lo sguardo deformato attraverso il calice in Champagne, il coltello del pane in Blackmail metafora angosciosa del trauma, il sigaro “osceno” del ricattatore in Blackmail, ecc..).
Così, nell’H. del periodo inglese, il melodramma si apre al sentiero onirico della suspence e dell’intrigo (il meccanismo della suspence è nel campo controcampo che fa “giocare” lo sguardo. Suspence come dilatazione della durata, amplificazione di una attesa, valorizzazione dell’angoscioso, del minaccioso, dello sviamento, attraverso situazioni di innocente familiarità. Ma la suspence non è esclusivamente visiva, bensì, costruita anche dal dialogo e dai giochi semantici, dove appare uno iato incomunicabile. Così in Easy Virtue la dichiarazione d’amore “fuori campo”, in The Ring il gioco linguistico tra ring, anello-fedeltà, ellisse della passione e il quadrato della boxe, segno della sopraffazione virile. Amore e morte, malvagità e omicidio, erotismo e pazzia, discesa agli inferi e redenzione, attraverso ribaltamenti e inversioni, sviamenti e suspence, questi i temi. La passione che si rifrange sullo sguardo, lo sguardo che postula il crimine determinano la messa in scena come pura rappresentazione. Per H. fare cinema significa sottolineare continuamente la natura fantasmatica dell’immagine, inventare storie che non abbiamo alcuna pretesa di verosimiglianza, fare appello alla fantasia dello spettatore, fascinarlo, sconvolgerlo, divertirlo, dargli la sensazione di trovarsi di fronte ad uno spettacolo irreale, totalmente gratuito, il quale, però, ha comunque il potere di turbare, far riflettere. In una parola, introdurre lo spettatore nel labirinto di un gioco che nasconde dietro la sua inutilità, i rischi di ogni incontro drammatico con il reale.
Tutto è “giocato” sull’itinerario-spostamento con lunghi carrelli e panoramiche, preludio a un gioco virtuoso di nascondigli celati, di movimenti che svelano e occultano, e di primi piani (oggettive e soggettive) immersivi e avvolgenti. Il suo cinema è anche una apparecchiatura ottica ingrandente, ludica e perversa in grado di generare PPP e dettagli dal potere incantatorio delle parzialità.
La distorsione, così, si precisa come propria della discorsività dell’autore che attraverso l’aberrazione ottica costruisce l’immagine a partire dalla reciproca regolazione e non determinazione dell’istanza morale con quella estetica. Ciò si evince, pure, nel ripensamento di un “genere” cinematografico (il melodramma), H. ne fa saltare i canoni, attraverso sviamenti dalla convenzione verso la farsa e il thriller.
La struttura narrativa come itinerario-messa in scena-costruzione si muove in modo che lo Heimlich, il familiare, il risaputo, l’abituale, divenga luogo privilegiato dell’Unheimlich, svelando il lato angoscioso e distorcente. Così, il carattere Unheimlich di quell’intimo, assolutamente estraneo che è l’ “io” del soggetto non viene evaso in malafede, ma esibito. Come l’inquadratura della mela gettata via con noncuranza da Levett, dopo un solo morso, in The Pleasure Garden, la scena dell’amatore di sigari che esibisce agli occhi dei due giovani protagonisti la padronanza e la voluttà del ricattatore in Blackmail. La messa in scena di H. rifiuta la registrazione semplicistica dell’azione e adotta una “scrittura” che consiste nel privilegiare un personaggio dai cui occhi saranno viste le cose e sentite dal pubblico. Esso sarà filmato in piano ravvicinato così che ci si identifichi in lui. La mdp lo precederà in ogni spostamento e quando scoprirà qualcosa di sconcertante, si attarderà qualche secondo di troppo sul suo viso, al fine di accrescere i dubbi nello spettatore, e perturbarne le certezze. Non vi è quindi nello spettacolo hitchcockiano solo l’atto dell’autore e del suo film, ma quello dell’autore, del suo film e del pubblico. Lo spettatore rimane incatenato alla poltrona, non solo assume l’angoscia, il turbamento del personaggio, ma incontra anche i propri. “E’ vittima della sua fascinazione”. Così, l’itinerario costituisce insieme un percorso geografico e psicologico, ed etico morale, e a seconda dei casi, il percorso materiale assume maggiore o minore consistenza e il percorso psicologico, etico morale, maggiore o minore capacità di sconvolgimento.
Nei film del periodo inglese, i personaggi vagano o viaggiano attraverso le possibili pieghe del sogno o dell’incubo, tra umiliazioni, risentimenti, tradimenti, l’impiego del montaggio parallelo sottolinea l’assetto formale, mentre l’alternarsi di situazioni drammatiche con le più ironiche, nasconde dentro falsi percorsi la oscillazione tra veglia e realtà. The Pleasure Garden, The Lodger, Downhill, Easy Virtue, assomigliano a “condensazioni” in cui si esibisce e si eclissa la metafora paterna e il suo segno difficile, che fa precipitare l’eroe in un universo mai immaginato, avviso di una precarietà insopprimibile, e porta con sé il tema dell’identità che rischia la perdita e il trauma, mentre lo “slittamento” come itinerario-spostamento affiora nella discesa esistenziale, nel calvario e nelle ascensioni, le “inversioni oniriche”, nell’innocente ingiustamente condannato, la quiete come rifuggire da ogni turbamento, nell’apparire della vertigine, e dissolvenza delle apparenze, come in The Ring, The Farmer’s Wife, The Manxman.
In The Pleasure Garden (1925) H. sublima gli stereotipi (erotismo e pazzia, omicidio e lieto fine) con l’assalto ritmato dell’ironia e con uno stile che possiede il meccanismo visivo e narrativo di un perturbante delirio, nella parabola esistenziale quale sussulto imprevedibile e frenetico. “H. rivela padronanza stilistica fin dalla prima inquadratura, una scala a chiocciola dalla quale scende una cascata di ballerine sgambettanti, ma a colpire è l’abilità con cui condensa la trama e moltiplica i livelli di significato”. I destini di due ballerine si incrociano: l’avida e astuta Jill fidanzata di Hugh fa fortuna in modo equivoco, la dolce e generosa Patsy viene tradita dal marito, Levett, amico di Hugh, uomo equivoco e senza scrupoli. Le due coppie sono assortite male e il fedele cagnolino di Patsy ringhia alla vista di Levett e scodinzola a Hugh. Ma Patsy e Hugh solo alla fine del dramma si incontreranno. L’asimmetria iniziale tra bene e male, si inverte in una simmetria finale. H. mette in contrasto il comportamento dei “buoni e dei cattivi” attraverso l’azione parallela. Così, l’inquadratura della mela gettata via con noncuranza dopo un solo morso, simboleggia efficacemente l’indifferenza e la “natura ingannevole” di Levett. E’ già evidente in questo film la dinamica dello sguardo tra punto di vista del personaggio e dello spettatore: con l’uso forte della soggettiva e della oggettiva H. richiama lo spettatore nell’intrigo emotivo del suo cinema (es: il ppp del vecchio spettatore voglioso del Pleasure Garden, lascia il posto al cannocchiale ingrandito in pp attraverso le cui lenti lo spettatore del film vede le gambe delle ballerine con la deformazione e smania del vecchio spettatore del teatro). Ciò sarà rafforzato in Champagne e in The Manxman. Infine, con il grande prologo del teatro e l’epilogo esotico, spettacolo (rappresentazione) e mistero (fascino e imprevedibilità) sono già segni del futuro. Così, in The Lodger (1926), Ivor Novello/Jonathan Drew, il misterioso pensionante, legato alle manette impigliate nella punta tagliente di un cancello, è simbolo di un martirio, di una crocifissione laica e della libertà negata. L’uomo “innocente” creduto colpevole è stato catapultato nelle ombre angosciose della suspence, nella Londra spaventosa del delitto sessuale: The Avenger uccide donne bionde (June Tripp interpreta Daisy, la figlia dell’affitta camere. Seconda di una lunga serie di attrici bionde o diventate bionde per H.: la prima era stata Virginia Valli in The Pleasure Garden. Il fidanzato poliziotto di Daisy dice scherzando: “Anch’io ho un debole per i capelli biondi, proprio come il Vendicatore”. Ma, i capelli biondi alludono pure al desiderio nascosto e [feticistico] di H. alla intangibilità dei corpi e al turbamento dell’attrazione). The Lodger (“il mio vero primo film”) diventa l’essenza dell’H. del muto, con lo sguardo e il suo avvampare nello studio della colpa, dell’inganno, nella dissolvenza della normalità e delle apparenze, ciò attraverso la moltiplicazione dei segnali ed espedienti visivi: a cominciare dalla scena iniziale, la paura che corre veloce, le capigliature bionde che si succedono sullo schermo, gli avvisi di pericolo che tutta la città notturna rimanda, spettrale teatro delle gesta di The Avenger, il soffitto trasparente che permette di spiare dal piano di sotto l’andirivieni ossessivo del pensionante. Girato poco dopo il rientro del regista dalla Germania, il film, mostra l’influenza espressionista che lo stesso H. dichiara provenire dall’ammirazione per Murnau. Di fatto Murnau con il suo realismo onirico si addice alla poetica di H. che non mitizza mai i suoi criminali, anzi li riconduce ad una fragilità interiore che non è mail snaturata dal sogno di onnipotenza. Così il regista sceglie di non mostrare mai The Avenger che diviene semplice ombra cupa che inquieta la vita tranquilla degli esseri umani, incubo “rimosso” nel fondo di ciascuno. La necessità di creare una suspence protratta fino all’ultimo secondo viene sfruttata al fine del rovesciamento conclusivo, mostrare che nulla è ciò che automaticamente appare. C’è un poliziotto, c’è la famiglia, la donna bionda: le ossessioni e lo specchio della rappresentazione. Così ogni attore è coperto da un ruolo tematico doppio, uno che lo qualifica secondo le sue azioni, l’altro secondo le sue passioni: Joe Betts poliziotto e fidanzato, Jonathan Drew sospetto assassino e innocente, Daisy possibile vittima e liberatrice. Il protagonista è gettato nella spirale dell’ansia e dell’ambiguità. I dettagli e gli oggetti sono “confusi” (la sciarpa che copre il volto, i ritagli di giornale, i ritratti di donne bionde di cui Jhonatan non sopporta la vista, l’estrema gentilezza), le piste si contraddicono, mentre lo spettatore è un investigatore smarrito negli indizi e nell’enigma. In questo film tutto ruota intorno agli ostacoli frapposti all’unione di una coppia (come in The Pleasure Garden) ostacoli interni ed esterni e si riassume nell’ultima inquadratura: dal seminterrato all’attico. L’inquilino non più misterioso, ma ricco e seducente, ha sposato Daisy. Davanti ad una grande finestra in un elegante palazzo, la coppia si bacia. Dietro il vetro, minuscola, ammicca l’insegna luminosa “stasera riccioli biondi”, ma ora non invade più lo schermo (come subito dopo il ritrovamento della “bionda” strangolata), “ma è perfettamente ‘contenuta’ in un riquadro della finestra”, l’ossessione e l’incubo sono, apparentemente “rientrati”. H. appare in questo film nel suo primo cammeo-firma. The Lodger uscì grazie alle pressioni del produttore Michael Balcon e di Ivor Montagu che aggiunse al film i magnifici disegni di E. Mc Knight Kauffer.
Ugualmente in Downhill (1927) il “declino” di Roddy Berwick inizia da una “non verità” e si conclude nel ritorno all’innocenza. Dallo humor dell’avvio, (Roddy che all’annuncio della sua espulsione dal college dice: “Questo significa che non potrò giocare nella partita degli ex allievi, signore?”) alla furente disperazione dell’ultimo atto, nel delirio tremendo sulle panchine del porto e nel “fondo” della nave. Nel porto di Marsiglia tra gli incubi, Roddy, vede continuamente l’allucinante figura del padre. Il ritorno a casa è come racchiuso nell’arco di un sogno, ma forse tutto è un percorso mentale, dove paura, orgoglio, erotismo, si intrecciano in una rifrazione abissale. Downhill, tratto dall’opera teatrale scritta da Novello e Costance Collier è uno dei film più cupi della prima produzione di H. Qui il regista “mette in campo tutta una serie di figure femminili rapaci e manipolatorie che si accaniscono sullo sfortunato giovane: la commessa della pasticceria accusa falsamente Roddy di averla sedotta; l’attrice egoista e mercenaria lo sposa per l’eredità e poi lo abbandona quando il denaro comincia a scarseggiare; la venale ‘Madame’ del locale notturno approfitta della sua povertà facendolo ballare per pochi soldi con donne attempate e sole”. Si intuisce, come l’opera teatrale rifletta le esperienze dello stesso Novello, divo omosessuale, oppresso dalle indesiderate attenzioni femminili ma forse il film, può alludere pure al legame vischioso, incestuoso di H. con l’imago materna. La “discesa” esistenziale di Roddy è resa visibile dalle sequenze delle scale che scendono in profondità, fino a raggiungere la stiva spoglia della nave (le scale come “messa in scena” di idee e sensazioni come simbolo di un itinerario che provoca pericoli, mutazioni dell’inconscio, visualizzazioni di caratteri e preoccupazioni, anticipazione di prossime condizioni: Es. le continue “ascensioni” dentro e fuori la pensione di The Lodger, la salita e la discesa di Alice dall’appartamento del pittore, la salita e il precipitare del ricattatore di Blackmail). Nella stiva, Roddy febbricitante, ha un incubo e moltiplica la figura del padre, lo rivede nelle sembianze di un marinaio, nelle fantasie del “padre Totem”, attorniato dalle terribili donne della sua vita, infine nelle vesti di un poliziotto. In questo incubo, Roddy si rivolge al padre dicendo “salvami padre”, e, infatti, ritornando a casa il padre lo abbraccerà chiedendogli perdono. La sua innocenza, è stata “riconosciuta”. L’innocente ingiustamente condannato, che ha accettato la colpa, ristabilisce la sua innocenza, secondo lo schema di linearità simmetrica, con il ritorno del protagonista all’origine, Roddy che gioca nella squadra di footbal. Forse è stato tutto un sogno, un terribile incubo.
Così Easy Virtue (1927) rappresenta il calvario di Laurita Filton, vittima di due uomini impossibili, il marito e un giovane pittore, ma esposta soprattutto alla crudeltà inesorabile del giudizio delle convenzioni sociali, enunciate da H. in una poetica tra ghigno e irrisione sia nelle caricature del processo che in quella della “madre vorace” nella famiglia di John. Ma il capolavoro di Easy Virtue si esaurisce in una sola sequenza: la dichiarazione d’amore con i corpi “fuori campo”. Tutto passa per il telefono. La telefonista ascolta la conversazione, si fa prendere dal contatto spiato, attende che la coppia si ritrovi nel “sì” mormorato dalla futura sposa. Anche questo un modello di suspence. Ma Easy Virtue rimane una melodia tenue che non raggiunge l’orchestrazione piena.
Anche in The Ring (1927) l’itinerario e la vertigine, come sarà in Blackmail, sono dati dalle alterne vicende di una donna divisa tra due uomini. In The Ring sono entrambi pugili professionisti e subito circola una ambiguità semantica: i significati della parola ring, dal quadrato della box, alla fede nuziale del legame con Jack, al braccialetto attorcigliato, quasi a spire di serpente, donato alla protagonista (Nelly) dall’amante. La conformazione del ninnolo rimanda alla tentazione di Eva, così come lo sono le bollicine della coppa di champagne che svaniscono mentre la colpa si fa sempre più forte, irreversibile. L’elemento della ellissi che sonda l’ambiente del circo come spettacolo e come cinema si converte dal mondo passionale di The Pleasure Garden a quello spietato del pugilato, dove il godimento della vittoria è lo stesso della conquista e del possesso della donna. “Ring” ovvero il cerchio, la circolarità delle espressioni e del senso, lo scambio incessante tra parole ed oggetti. Questi i motivi conduttori del racconto. “Si tratta di quel ‘trattare le parole come oggetti’ comune al linguaggio della poesia quanto a quello dell’infanzia e del motto di spirito. Costruzione dell’inquadratura, montaggio, recitazione, e ogni sorta di metafora visiva concorrono a rinforzare un plot già vigoroso nella sua ostentata elementarità”. In questo film H. gioca sulla circolarità, fin dall’incipit, le giostre che girano a produrre vertigine e incertezza, come quella di Nelly stretta tra due uomini, incertezza che rimane irrisolta fino all’ultimo colpo di scena. Cosi H. affronta il tema di come rappresentare la suspence, l’incertezza sul risultato di un’azione, da cui dipendono i destini dei protagonisti. Il regista “intensifica” l’attesa attraverso l’uso di dissolvenze incrociate sui volti di Nelly e Bob e sugli ambienti della festa, in modo che il punto di vista di Jack appaia come un viaggio nell’incubo, affidato pure all’esito di un combattimento sul ring, che quasi non si vede.
In The Farmer’s Wife (1928) nel clima della campagna gallese H. si scatena nella variazione delle scelte linguistiche, nella mobilità della cinecamera (la scelta di fare parlare gli attori guardando in “macchina”, i movimenti di macchina che spostano il punto di vista, grazie a carrelli, dolly, cambio di obiettivi e tagli di montaggio, tutti effettuati per associazione) e nella “distruzione” di una tipologia paesana affidata alle disavventure della zitella Thirza Tapper, durante il rovinoso thé party. “E’ una commedia ben calibrata sulla guerra dei sessi e la storia di un uomo arrogante che riceve una lezione di umiltà, resa pregnante dalla scena iniziale in cui il Sig. Sweetland (Jameson Thomas) contempla un futuro di solitudine nel trambusto del matrimonio della figlia”. Una commedia riletta con le cadenze di un montaggio a suspence in una immersione nella farsa e nel grottesco (grazie anche alla recitazione di Gordon Harker nei panni del tutto fare scansafatiche Ash, a cui fa da contrappunto la dolce e pacata Lilian All Davis già ammirata in The Ring). Potente su tutto, la vertigine naturale e straniante (il paesaggio del Devonschire come sarà in The Manxman). Con Champagne (1928) il ritorno al padre. Il miliardario che infrange la love story si pone come motore visibile e invisibile dell’azione. Qui lo champagne ha gli stessi poteri del braccialetto di The Ring, è il contrappunto degli accadimenti, è lo strano “doppio” della potenza paterna. Il padre di Betty non accetta l’innamorato Jean, bello ma senza un soldo. Poi progetta un intrigo per insegnare alla figlia, frivola e irresponsabile, le difficoltà della vita, finge che un disastro finanziario lo abbia ridotto sul lastrico. Betty è costretta, così, a guadagnarsi da vivere e si ingegna a lavorare in un locale notturno, dove scopre rapidamente il lato più sordido della mondanità, un tempo tanto amata. Nel film “ritroviamo l’immagine della coppa di champagne non solo come oggettiva in dettaglio con lo sfondo del PPP del bevitore, ma anche come soggettiva dello stesso, il cui sguardo, filtrato dalla lente di cristallo, e dal suo effervescente contenuto, ha una visione diversa dalla realtà. Il protagonista in questione è una figura sinistra e “doppia”, spunta con inquietante regolarità nella vita di Betty e suscita le diffidenze della ragazza che lo immagina, come in un incubo, capace perfino di aggressione sessuale, nel tabarein dove lei lavora. Si scoprirà alla fine essere, in realtà, l’alter ego vigile del padre. Ma con uno sguardo equivoco e sinistro guarderà in macchina, nella sequenza finale, lasciando lo spettatore in uno stato di angosciosa inquietudine. H. non ama certo gli effetti facili, ama al contrario percorrerle possibilità strumentali sottoponendole alla verifica del suo stile. La distorsione attraverso l’uso dell’aberrazione ottica (come il flou) costruisce l’immagine a partire dalla non coincidenza dell’istanza morale con quella estetica. La distorsione, l’ondeggiamento, il barcollamento (effetti dello champagne) si fanno “idea” del gioco delle apparenze e di una realtà inguardabile, sporca, che viene riproposta nella scena della cucina: il pane e il cibo cadono e vengono toccati con mani sporche, ma serviti in tavola con il sussiego imposto da vassoi e posate di argento. Anche in questo film, come in Downhill, Parigi è luogo di perdizione, con i night e i tabarin. Qui un untuoso esaminatore si assicura che le gambe di Betty rientrino nelle “regole dello spettacolo”. Ma, la realtà “sporca”, distorta, inguardabile (forse perché sdoppiata, in parte distorta dalle false attese di Betty sulla mondanità, in parte falsa perché costruita dal padre che vuole dare una lezione alla figlia frivola) si interrompe con l’intervento del padre, “deus ex machina” e l’happy end divertito di H. Ugualmente, morale e melodramma vengono smontati in The Manxman (1929). Per Philip e Kate, Man è l’Eden della possibile trasgressione, un giardino di roccia e tenebra, dal quale saranno scacciati assieme alla prova della colpa, il figlio. E’ il bambino che l’isola traveste da peccato, riecheggia, qui, il genio di Griffith “aspramente sociale”. Il titolo stesso incrocia le due figure maschili “Manxman”, Pete e Philip. Così, la mappa dello svelamento dello scandalo (il figlio) è costellata di maschere, di situazioni rovesciate e contraddittorie, riprese con l’obiettività della soggettiva. Philip è il giudice e moralmente l’imputato, Kate, l’imputata è la vittima, Philip l’amico di Pete, è in realtà suo rivale (in amore). “Nel suo ultimo bagliore del “muto” H. sviluppa l’imperativo dello sguardo e della sua “erronea” interpretazione (Pete interpreta l’abbraccio di Kate e Philip in modo innocente) mentre fanno da contrappunto gli occhi e i visi dei pescatori, come ‘massa’ minacciosa e impietosa (come già in The Lodger). Austerità e fulgori, semplicità e brutalità dello sguardo sulla focalizzazione della ‘bionda’ Anny Ondra. Passione e sensualità convergono nel magistrale crogiolo di angosce e rimorsi, di tabù e di ripugnanti archetipi tribali. Labirinto e disorientamento, vertigine e egoismi. Una lezione di regia”. Uno dei più maturi traguardi del cinema muto di H. In questo film è evidente la tensione tra accumulazione e conflagrazione, legata ai dilemmi morali dei tre protagonisti. La colpa, l’inganno, il contrasto tra perbenismo esteriore e viltà interiore. La forza pervasiva degli ambienti, della natura, enfatizza i dilemmi più intimi legati alle lealtà conflittuali dei protagonisti (la lealtà ai propri sentimenti di Kate, alla onorabilità, all’amicizia, di Pete, al dovere, di Philip). Il film riconduce tutto ad un unico centro, inserito stilisticamente nel cosmo concentrico di un’isola, e nell’unica sequenza svelativa del processo, quale addizione luminosa e oscura.
Con Blackmail, di nuovo, dopo Easy Virtue e The Ring, un caso di insoddisfazione femminile: un tragitto di vertigine, nel tentativo quasi illusorio di una pratica liberatrice. Un viaggio nella psiche, una rotazione continua che è motore dell’esistenza. Senza questa inquietudine tutto rimarrebbe immobile, ma H. non adora la staticità, meglio invece l’esplosione di luoghi dove può esplodere, con effetti deflagratori, l’imprevisto. Blackmail va infatti ad insediare il crimine, a New Scotland Yard, lì, dove al contrario, andrebbe ufficialmente ed efficientemente combattuto.
Apparentemente tale contraddizione viene allontanata nel prologo. Come The Lodger spiegava con l’ “intensificazione” il diffondersi della notizia attorno al “dettaglio” del crimine, Blackmail ci mostra la “rassicurante routine” di investigazione: due agenti sorprendono un uomo con pistola nella camera di un sordido albergo, lo disarmano e lo portano al commissariato centrale. Registrazione, impronte digitali, fotografie, interrogatorio e la cella. L’investigatore Frank Webber è atteso sulla soglia di Scotland Yard dalla fidanzata Alice. Primo film sonoro di H. mette in scena un intrigo che capovolge l’ispirazione ai modelli dell’eroe o eroina innocente. La protagonista è colpevole, anche se costretta ad uccidere per difendersi da una violenza. Ancora la vertigine, Frank Webber e Alice litigano al ristorante, lui se ne va, Alice accetta la corte di uno sconosciuto che la porta poi nel suo studio di pittore. Arrivati allo studio Alice guarda i quadri del pittore (Crewe) tra cui quello di un buffone che sogghigna maligno con l’indice puntato, “segnale” della colpa e del rimorso.
Tra Alice e Frank vi è un rapporto di “routine”, privo di eros, (è evidente nella incomunicabilità della scena al ristorante, dove il dialogo è assente, rumore di fondo, indistinzione) il corpo nudo di donna che Alice traccia guidata dalla mano del pittore, è privo di segno sessuale, White (puro, vuoto). Ma quando la polizia esaminerà la stanza dopo l’assassinio, il disegno nuovamente inquadrato dalla camera è questa volta completato, con il triangolo del sesso. Alice nella sua insoddisfazione e irrequietezza fa sì che il desiderio scivoli in una carica di libidine, che diviene esasperazione, ferocia nel pittore, che cerca di sedurla dietro ad una tenda dove infuoca una lotta frenetica. Alice si trova in mano un coltello e senza rendersene conto colpisce l’uomo ripetutamente. H. non svela la scena della violenza e della colluttazione, che rimane nascosta da una tenda; affiora la mano di Alice che disperatamente cerca salvezza e impugna il coltello del pane, infine la mano di Crewe esamine. Così, la parcellizzazione emerge come ingranaggio della macchina-sguardo (lo rivedremo in Psyco). Purtroppo un conoscente del pittore, Tracy,vede Alice uscire dall’alloggio e perscrutando, poi, di nascosto l’appartamento di Crewe, trova un indizio, un guanto della ragazza che sarà oggetto del ricatto. Alice vaga tutta la notte, turbata dal delitto, nel tormento e nell’ansia. Lei ha colpito l’uomo con un coltello da cucina per il taglio del pane e la mattina dopo a tavola è costretta a sentire “ripetere” più volte il medesimo vocabolo: coltello, coltello, fino a dovere “ripetere” il gesto di impugnarlo per passarlo al padre. “Segno” visivo e costruzione semantica del dettaglio significante. Così, come nell’incubo del suo vagare notturno, con le luci, il fragore delle strade, si era imbattuta in un vigile con il braccio teso simile a quello del cadavere, ma, solo nel turbamento della sua mente, e in un barbone disteso nella “identica” posizione del cadavere, proprio un fotogramma prima che il montaggio guidi lo spettatore alla scoperta del morto da parte della domestica.
A poco a poco si incalza una tensione vertiginosa tra Tracy, il ricattatore, Frank, il poliziotto e Alice la vittima-colpevole, gioco di angosce, inseguimenti e slittamenti di senso, (tra atto, ricatto e riscatto), dove i soggetti sono sempre più ridotti a maschere o a semplici “riferimenti visivi”. Così l’inseguimento dentro al British Museum (ottenuto grazie al trionfo di esperimenti ottici come il metodo Shufftan, con la prima introduzione dei “trasparenti” che servono a ricostruire in studio il museo) evidenzia proprio questo dato di fatto, minuscolarizza la persona in una semplice figura puntiforme, tra i monumenti, i libri, i reperti archeologici. Schiacciato dal ruolo, alla fine Tracy è ridotto a poco più di un minuscolo punto, poi il nulla. Un tonfo, la caduta, il caso è risolto. Ma Alice, che vorrebbe confessare, subisce il ricatto di Frank che le impedisce di parlare. Il silenzio a cui Alice si fa convincere la porterà a rimanere schiava (vittima) del rimorso e di Frank. Le loro risate, all’uscita di Scotland Yard, hanno “qualcosa” in comune, sono risate isteriche e disperate.
Ora Frank è il padrone, come lo era all’inizio, la polizia, dei sordidi quartieri del primo arresto, anch’egli, però, un “nesso” di un vasto sistema di controllo, dove tutto è catalogato e sepolto. Ma l’ombra della insoddisfazione e della rivolta non viene cancellata. Frank e Alice sono “liberi” ma nella “prigione” della espiazione e della aquiescenza. Il ghigno del buffone nel dipinto del pittore, troneggia nella sequenza finale!
In conclusione credo che il meccanismo visivo e narrativo di perturbante delirio, la moltiplicazione dei livelli di significato e degli slittamenti di senso, la tensione onirica, l’inquieto lampeggiare della ricerca espressiva, lo “scoprire”, il raccogliere e spiare nei fotogrammi, siano i costituenti dell’ “H. inglese” e che ciò si leghi pure alla duratura collaborazione con Eliot Stannard. La spirale è il centro poetico, il senso di vertigine e di “risucchio” che colpisce protagonisti e pubblico è la dimensione che forma la conoscenza, l’ingresso nella finzione-realtà, per esistere e capire il sogno, i sogni della vita! In questa ottica si comprende pure la “circolarità” degli attori, in ruoli, a volte, complementari. Ivor Novello, il cupo pensionate in The Lodger e lo sprovveduto Roddy Berwick in Downhill; Robin Irvine, Time Wakaly l’amico povero di Roddy in Downill e il nobile John Whittaker in Easy Virtue; Isabel Jean l’avida attrice Julia in Downill e l’inerme Larita Filton in Easy Virtue; Malcom Keen, lo spavaldo Joe in The Lodger e il martoriato Philip in Manxman; Gordon Harker l’allenatore in The ring, Churdles Ash il tuttofare scansafatiche in The Farmer’s Wife e il padre severo in Champagne; Carl Brisson, Jack in The Ring e Pete in The Manxman; Ian Hunter Archie, l’impresario avido in Downill e Bob Corby, il campione in The Ring; Lilian Hall Davis la volubile e sensuale Nelly in The Ring e Minta, la devota governante in The Farmer’s Wife; Violet Farebrother la donna sola nel tabarin in The Lodger e la madre severa di John in Easy Virtue; Anny Ondra la forte Kate in Manxman e la fragile Alice Withe in Blackmail.