Sono avanzato a tal punto nel sangue

che, se dovessi andare a guado più oltre,

il tornare mi sarebbe pesante quanto il procedere

Macbeth, William Shakespeare

 

1943: il comandante nazista Rudolf Höss e sua moglie Hedwig abitano con i figli nella zona d’interesse, l’area che circonda l’inferno di Auschwitz. Solo un muro di cinta separa il loro paradiso privato - con tanto di giardino fiorito e piscina - dall’inferno comune del campo di concentramento. Al di qua del muro si svolge la loro vita quotidiana, scandita da pranzi, piccole festicciole, visite di amici e parenti, gite al fiume. Ogni mattina Rudolf apre il cancello e va al lavoro come un qualunque impiegato, Hedwig si occupa della casa e dei bambini. Lui pensa a come gassificare più velocemente i prigionieri, lei prova gli abiti più belli fra quelli sequestrati alle prigioniere.

Dopo oltre dieci anni dal suo Under the Skin, film ispirato all’omonimo romanzo di Michael Faber, il regista britannico Jonathan Glazer ritorna al cinema con La zona d'interesse, sua personale lettura dell’omonimo e straordinario romanzo del connazionale Martin Amis, noto scrittore scomparso nel 2023, proprio quando il film veniva presentato a Cannes.

Nel libro di Amis si alternano in prima persona le voci del comandante Paul Doll (ispirato a Rudolf Höss) e della moglie Hannah (Edwig Hensel) oltre a quelle dell’ufficiale Golo Thomsen e del sonderkommando Szmul (un prigioniero addetto ai forni e alle camere a gas). Il punto di vista è dunque unicamente quello di nazisti e carnefici, che siano diretti torturatori o semplici conniventi.

Ma se da un lato il personaggio di Doll appare grottesco e ridicolo - fisicamente ripugnante, umanamente spietato e insensibile, privo di qualsiasi empatia e attitudine sociale - sia la moglie Hannah, che si innamora di Golo, sia il traditore Szmul sono caratterizzati da una lucida e disperata coscienza di sé e del mondo in cui stanno affogando. Attraverso i suoi personaggi Amis interroga il nazismo - quello di ieri ma anche quelli di oggi - sulla propria origine e natura, sull’aspetto esteriore e su quello interiore, etico e morale (“Giusto e sbagliato, bene e male: questi concetti - dice Paul Doll - hanno fatto il loro tempo; sono finiti”), sull’ossessione per la produttività, sul potere di uccidere la speranza, di segnare inesorabilmente il futuro.

Glazer parte quindi dal libro di Amis per darne una sua rilettura personalissima - come già aveva fatto nel suo film precedente - mantenendosi sì fedele ai temi di fondo, ma scarnificandoli, distaccandosi da vicende e protagonisti per concentrarsi da un lato sull’indicibilità e quindi anche sulla non rappresentabilità per immagini dell’orrore della Shoah, e dall’altro sulla figura di Rudolf Höss, che perde la connotazione grottesca e ridicola del romanzo per dar vita sullo schermo a “uno dei massimi criminali mai esistiti”, come lo ha definito Primo Levi e come emerge dall’autobiografia dello stesso Höss, Comandante ad Auschwitz.

La vita della famiglia Höss viene ripresa a distanza, attraverso videocamere fisse, con luce naturale, campi medi e pochissimi primi piani che indugiano non sui volti ma su alcuni particolari: le imperfezioni della nuca e delle tempie rasate di Rudolf (interpretato da un Christian Friedel opportunamente freddo e misurato), il rossetto di una prigioniera che Hedwig (una Sandra Hüller claudicante e rapace) si stende stizzosamente sulle labbra.

Di quello che c’è oltre il muro noi spettatori udiamo solo i suoni (un misto di lamenti, pianti, catene, colpi di pistola), vediamo i particolari da lontano (camini crematori che illuminano la notte di rosso sangue), percepiamo i disagi (l’odore insopportabile dei forni o la cenere di morte che si deposita su tutto e non si pulisce).

Rinunciando a rappresentare per immagini l’Olocausto, togliendolo letteralmente di scena - laddove ogni spettatore si aspetta di vederlo all’interno del film - Glazer lo rende in realtà ancora più presente e insostenibile. Non solo, il regista riesce ad amplificare questa presenza fantasma, oltre che attraverso i rumori di sottofondo del campo prigionieri, anche con la musica cacofonica e claustrofobica di Mica Levi e con il colore a tutto schermo - nero, bianco e rosso - che funziona come una sorta di correlativo oggettivo evocando morte, sofferenza e sangue.

Le uniche fuggevoli immagini che interessano il campo di concentramento sono due e provengono entrambe dalle tenebre. La prima riguarda una giovane ragazza polacca che, protetta dall’oscurità, distribuisce dei frutti lungo i fossati e sul terreno ancora da scavare, là dove i prigionieri il giorno successivo potranno trovarli e mangiarli. L’unico spiraglio di speranza Glazer lo riserva proprio a questa figura, che lui stesso definisce “la forza luminosa del film”. Una scena notturna, ripresa con la camera termica che ci porta per un attimo in una dimensione visivamente fiabesca ma ricca di umanità.

La seconda immagine del campo di concentramento la vediamo nella parte finale del film, quando Rudolf Höss scende le scale di un palazzo come se stesse scendendo negli inferi: fissando un punto luminoso nel buio in cui sta sprofondando - lo stesso punto luminoso di contatto tra la terra e gli alieni di Under the Skin - vede nel futuro. Vede Auschwitz nel presente, nella sua veste attuale di memoriale, con gli effetti personali delle vittime nelle teche, le loro fotografie. Vede alcune operatrici che ancora puliscono uno spazio che non è possibile pulire.

“Sta ancora succedendo. Qualcosa di alquanto misterioso e alieno [...]. Un autentico soffio infernale - scrive infatti Amis nel suo romanzo - O forse, o forse è fin troppo umano, semplice e banale”. E le sue parole non possono non farci pensare al nostro qui e ora, a partire dai tanti regimi autoritari che ancora covano in seno gli stessi semi del pensiero nazifascista, agli estemporanei ma violenti episodi di abuso di potere, fino ad arrivare al nostro piccolo distogliere lo sguardo.