Il cinema e la Storia sono uniti assieme da un nodo indistricabile, quasi ancestrale. Nei meandri ininterrotti di quest’ultima, la responsabilità del cinema è fornire uno sguardo, che sia innovativo, provocatorio, resiliente o alle volte dubbioso, capace di sollevare la polvere nascosta dietro ai grandi avvenimenti che hanno segnato l’evoluzione politica di una nazione.
Questo è il caso de L’abbaglio, nuovo film di Roberto Andò che dopo La stranezza (opera incentrata sulla vita di Pirandello) torna assieme a Toni Servillo, Ficarra e Picone per proporre una trama inerente ad un retroscena della storica Spedizione dei Mille guidata da Giuseppe Garibaldi. Nell’opera, il grande protagonista del Risorgimento italiano rimane sullo sfondo per mettere in luce il personaggio storico del Colonello Vincenzo Giordano Orsini (Toni Servillo), un aristocratico palermitano che ripudia la propria appartenenza sociale per abbracciare l’ideale risorgimentale e che, durante la liberazione della Sicilia, guida una missione depistaggio contro l’esercito borbonico per dar tempo all’eroe dei due Mondi di entrare a Palermo e coronare l’inizio dell’Italia unita.
L’ideazione narrativa della vicenda risorgimentale rende l’opera un composto esempio di cinema politico che, audacemente, sovrappone una sottotraccia comica nella presenza di Ficarra e Picone. I due personaggi interpretati, Domenico e Rosario, sono rispettivamente un illusionista ciarlatano in fuga da Venezia per aver barato al gioco delle carte e un vagabondo in cerca di un passaggio per tornare nel suo paese d’origine in Sicilia. Difatti, una volta sbarcati sulle spiagge di Marsala, abbandonano senza troppo indugio i compagni compatrioti, diventando dei disertori. La schietta rinuncia alla camicia garibaldina equivale metaforicamente alla rinuncia della causa politica, all’apostasia dell’ideale repubblicano.
Due uomini- Domenico e Rosario- che si ritrovano a combattere in una guerra estranea ed esterna al loro credere, vivere e sentire individuale. Il destino intrapreso dai due opportunisti richiama l’eco dei celebri Oreste e Giovanni de La grande guerra (1959) di Mario Monicelli. Tuttavia, mentre quest’ultimi compiono un figurato arco di redenzione, Domenico e Rosario- benché cancellino la lettera scarlatta della diserzione, facendo ricredere il colonello Orsini- continueranno ad essere l’abbaglio prediletto della rivoluzione mancata e a simboleggiare il volto dell’Italia che vince, quello della furbizia opportunista.
Andò propone un’acuta riflessione dietro al sentimento patriottico italiano, codificandola cinematograficamente attraverso lo sguardo del colonello Orsini. I suoi occhi, mediante primissimi piani, rivelano soffusi la vera natura del sentore disilluso che anima i combattenti e tutti gli idealisti della rivoluzione. Quell’abbaglio è la presa di coscienza della realtà, l’amara verità che alimenta l’agire politico italiano.
L’intento del regista ricorda intellettualmente quello compiuto nel saggio Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1824) di Giacomo Leopardi, dove il filosofo tratteggia - senza troppo delicatezza - il carattere opportunista che contraddistingue l’allora inesistente popolo italiano. Nel film, questo disvelamento viene filtrato in maniera edulcorata proprio dal nucleo comico che si costituisce in Domenico e Rosario.
I due personaggi, infatti, vivono una redenzione apparente nel momento in cui si consegnano al generale dell’esercito borbonico (fingendosi il sindaco e il parroco del paese) in cambio della rinunciata rappresaglia contro gli abitanti di Sambuca che hanno offerto aiuto ai compatrioti repubblicani.
Si costituisce in tal modo, una robusta dicotomia fra l’assunta impossibilità di cambiare il mondo presente e la speranza che vive nei cuori dei giovani volontari che si sono arruolati e imbarcati a Quarto da ogni parte d’Italia per contribuire al sogno collettivo di fondare un paese unito. La commistione dialettica si configura come elemento estetico interno che si immerge alla fotografia cruda del paesaggio siciliano e alle panoramiche- a tratti viscontiniane- che scorrono sui volti delle madri anziane che piangono i loro militi.
Come il titolo riporta, L’abbaglio è un film che sa ingannare il suo pubblico. L’intreccio della vicenda risorgimentale è una maschera cinematografica- sul valore politico corale, sul sentimento collettivo e sugli ideali condivisi- che una volta caduta, disvela il volto imbonitore della Storia.