C'era due volte il film di Toshiya Fujita: la prima volta, nel 1973, condivide la triste parabola usa e getta dei film exploitation; la seconda, invece, resuscita come “il film che ha ispirato Kill Bill” e con l'effetto Tarantino diventa un cult.
Il nome della protagonista rimanda direttamente alla neve. Yuki, infatti, ha qualcosa della principessa (hime), ma non è una Biancaneve (Shirayuki hime), sebbene il titolo giapponese la richiami (Shurayuki hime); ha qualcosa di sovrannaturale, ma non è una yuki-onna (donna delle nevi) come quella di Kwaidan (Kobayashi, 1964). Suggestioni a parte, è proprio l'accostamento di aspetti apparentemente inconciliabili a costituire il suo fascino e in generale a orientare le scelte filmiche.
Se la fotografia gioca sui contrasti cromatici e la messa in scena concilia la stilizzazione alla rappresentazione iperbolica dei vari massacri e ad una colonna sonora di estrema dolcezza (d'obbligo menzionare la canzone Shura no hana cantata dalla stessa Kaji), l'ombrello/katana si fa metafora della natura del personaggio, tanto più che “la spada è l'anima”, come insegna Toshiro Mifune in The Sword of Doom (Kihachi Okamoto, 1966): all'apparenza la protagonista è una creatura fragile che ricorda le geishe delle stampe ukiyo-e, in realtà è letale come un demone, motivo per cui viene chiamata “figlia di uno shura”, ovvero chi è condannato alla battaglia eterna. In Yuki, insomma, che ha ereditato il rancore dalla madre e vive per portare a termine la propria missione, la bellezza e per estensione la fragilità si combinano all'inumano, inteso sia come espressione di un potere quasi sovrannaturale che come rinuncia alla propria affettività.
Lady Snowblood, un revenge movie in chiave chanbara dai colori pop, ricoperto da quegli schizzi, o meglio, spruzzi di sangue che avevano iniziato a sgorgare nella scena finale di Sanjuro (Kurosawa, 1962), è un film che insegue il fumetto ed è tratto da un manga gekiga del 1972-73 che a sua volta insegue il cinema, sceneggiato da Kazuo Koike (da ricordare almeno il suo Lone Wolf and Cub) e disegnato da Kazuo Kamimura, il “pittore dell'era Shōwa”, divenuto celebre per le sue eleganti figure femminili cariche di erotismo, talmente cariche che Lady Snowblood viene pubblicato sulla rivista Weekly Playboy e dunque considerato seinen (v.m. 18, diremmo noi).
Il manga, ambientato in epoca Meiji come poi il film, somma alle caratteristiche della kunoichi, controparte femminile del ninja, quelle della dokufu, ovvero la donna “velenosa” che strumentalizza il sesso a fini criminali, una figura che da metà '800 in poi passa dalla cronaca alla fiction per poi approdare anche ai manga e al cinema, evidente espressione di un'ansia sociale legata all'emancipazione femminile, ma che a seconda dei periodi - e dei lettori – viene acclamata come un'eroina (basti pensare a Sada Abe, ispirazione per Ecco l'impero dei sensi di Oshima, 1976).
Nel film, però, se la madre di Yuki si trasforma effettivamente in una dokufu dopo il trauma subito, la protagonista sceglie la via della sola violenza, a quanto pare più per volontà dell'attrice Meiko Kaji che per una scelta di sceneggiatura o di regia. Toshiya Fujita, regista legato alla Nikkatsu, aveva già diretto la Kaji in Stray Cat Rock: Wild Jumbo e Alleycat Rock: Beat '71.
Per salvare le finanze, nel 1971 la Nikkatsu rimodella il pinku eiga (letteralmente film rosa, tecnicamente un genere a basso costo dai contenuti soft-porn) e inventa il roman porno, al quale Fujita poi si dedicherà con esiti fortunati. A quel punto l'attrice, in disaccordo con la politica dello studio, si sposta alla Tōei. Qui, sempre per questioni economiche, sta prendendo piede un'ulteriore tipologia di pinku eiga, che decenni dopo verrà riconosciuto come genere a sé stante e chiamato pinky violence.
Nel '72, quindi, la Kaji recita in Female Prisoner #701: Scorpion di Shunya Ito, primo titolo della serie Sasori. Lady Snowblood e il seguito, Lady Snowblood 2, Love Song of Vengeance, anch'essi oggi classificati come pinky violence, sono prodotti da un'altra casa di produzione, la Tōhō, e rappresentano sia per l'attrice che per il regista una parentesi nella carriera presso i rispettivi studi.
Posto che la vendetta è un tentativo di ristabilire l'equilibrio - anche in termini karmici - e che di terribili vendette al femminile il Giappone è pieno (da quella della dea Izanami alla vicenda di Rokujō nel Genji monogatari), tralasciando i vari fantasmi (onryō) di donne spettinate che tornano a farsi giustizia anche nell'horror contemporaneo e restringendo il campo al solo mondo dei vivi, resta il fatto che nella cultura giapponese la vendetta riveste un ruolo cardine in quanto connaturata all'ethos feudale.
Le storie di vendetta (katakiuchi mono), non esclusivamente maschili, arrivano a costituire un vero e proprio corpus nel tardo periodo Edo: la vendetta è esaltata, col tempo fino al limite della propaganda, come garanzia dell'ordine sociale e manifestazione delle virtù confuciane di lealtà e pietà filiale, alle quali si aggiunge la castità nelle storie di vendetta al femminile. Al cinema, la vendetta passa ovviamente dal jidaigeki, il film in costume (basti pensare ai numerosi adattamenti della vicenda dei quarantasette ronin), e negli anni '60 trova una riattualizzazione nel mondo del crimine organizzato con il film yakuza, genere che si pone come baluardo di sicurezza morale e i cui protagonisti salvaguardano i vecchi valori resistendo alla minaccia dell'occidentalizzazione.
Poi, a cavallo tra gli anni '60 e '70, con i pinky violence inaugurati dalla Tōei, iniziano a vendicarsi sistematicamente anche le donne. Si afferma la sukeban, bad girl legata al mondo delle organizzazioni criminali del tempo e delle gang al femminile, anche se ci sono almeno un paio di eccezioni, dato che in Lady Snowblood e in Sex and Fury (Norifumi Suzuki, 1973) le eroine sono comunque legate alla criminalità, ma rimodellate attraverso un filtro storico con l'ambientazione in periodo Meiji.
I pinky violence, sfruttando lo spazio cinematico libero se non addirittura anarchico dell'exploitation, finiscono per dare una spinta alla rinegoziazione dei ruoli di genere e ad avere una forte carica eversiva. Come già le dokufu, le sukeban utilizzano il sesso come ulteriore strumento di potere per manovrare uomini dominati dal desiderio e per smascherare il bluff del maschilismo, motivo per cui l'essere belle e attraenti le rende automaticamente pericolose (anche se non ancora completamente emancipate da un punto di vista sessuale, in quanto oggetti desiderati e non soggetti desideranti).
Tuttavia, l'aspetto più innovativo dei pinky violence consiste nel forzare lo spettatore ad adottare il punto di vista femminile e di conseguenza a leggere come tratti eroici lo status criminale e la sessualità delle protagoniste. La Yuki di Lady Snowblood, come si diceva, non sfrutta il proprio potenziale sessuale e sembra rifarsi a un'immagine più all'antica rispetto alle colleghe. A questo si aggiunge l'aspetto cruciale della vendetta per predestinazione, che le impedisce di autodeterminarsi: apparentemente c'è un'esaltazione della virtù tradizionale della pietà filiale, ma nella sostanza la protagonista è troppo composta per essere vera e risulta più vicina ad un automa, o meglio, a un ginoide.
Questo, in definitiva, è il vero tratto inumano di Yuki. Ed è ciò che rende Lady Snowblood un film che guarda cinematograficamente in avanti.