Mario Martone con Laggiù qualcuno mi ama firma la regia di un documentario su Massimo Troisi che ha come virtù cardinale la sua ispirazione: mettendo subito da parte l’intento più scontato di girare un’opera puramente biografica, Martone affonda le mani nella materia troisiana gettando le fondamenta di un discorso critico evoluto sul Troisi regista.
“Il cinema di Troisi per me era bello perché aveva la forma della vita”, dichiara subito la voce narrante del regista. E pochi fotogrammi dopo, col supporto di un delizioso montaggio alternato (a cura di Jacopo Quadri) capace di metterle in correlazione, Martone ci fa il dono di un accostamento illuminante, quello tra il cinema di Troisi e la Nouvelle Vague francese.
Comprendiamo improvvisamente il motivo per cui Massimo Troisi è rimasto nell'immaginario collettivo, non solo perché era una grande anima e un grande artista, ma sicuramente perché il suo cinema, quel cinema dal sapore spontaneo e popolare, era la rappresentazione di una nuova generazione che stava cambiando, che parlava, amava, lavorava, faceva politica in modo diverso da prima e in maniera del tutto inconsueta.
Il cinema di Troisi, a partire da quel suo esordio col botto (Ricomincio da tre, 1981), era il diario intimo di una generazione inquieta, un cinema capace di rispecchiare un nuovo modo di vivere o di intendere i rapporti amorosi, le dinamiche di coppia, le sempre più difficili relazioni tra donne, ogni giorno più forti, e uomini ormai messi all’angolo da una crisi della mascolinità che iniziava a fare capolino timidamente e sottovoce, grazie alle flebili ammissioni di inadeguatezza, che, Massimo per primo, timidamente spargeva nei suoi film.
“A noi ci hanno sempre insegnato l'onore, che bisogna salvare la faccia, i ‘corn e uno ‘ste cose se le porta dietro…io piens a ‘sti cose e penso che per le femmine è cchiù facile... io sto cercando di fa’ capì che non mi pozzo liberà di ‘sta cosa… voi donne siete più non mi fai parlà e già fai ccussi…e allora se dicevo voi donne siete meno?... eh, sto cercanno di esprimermi de spiegà”.
Grazie al prezioso lavoro di Martone, e con il contributo di figure del cinema che non lo conobbero personalmente ma la cui arte è stata fortemente influenzata da Troisi (come per esempio lo sceneggiatore Francesco Piccolo), intravediamo il solido background culturale che nutrì il cinema di Massimo regista. Con Troisi, ammette Piccolo, “salta completamente l’idea del maschile: se uno pensa che poco prima i maschi al cinema erano Sordi, Manfredi, Gassman e Tognazzi e c’era la figura o della donna fatale o della donna di cui innamorarsi perdutamente come figura angelica”, nel cinema di Massimo Troisi si fa strada la novità di figure femminili solidamente intrise di realtà ed energicamente forti, donne connotate da caratteri più potenti dello stesso protagonista maschile, donne che Troisi “non inseguiva, ma piuttosto seguiva” nelle sue storie, lasciandosi portare.
Il cinema di Massimo, quasi senza accorgersene, si fece diario intimo di una intera generazione reduce dalle rivoluzioni degli anni ‘70, dalle lotte politiche e da un certo femminismo (quello assorbito osmoticamente dall’allora compagna di vita e di lavoro Anna Pavignano) che lascia la sua traccia in particolari di sceneggiatura non tanto piccoli, quanto disseminati con deliberata nonchalance, forse tesa a dissimulare il loro potente valore politico.
La scelta di intestarsi un figlio dalla paternità non certa, nel finale tenero e coraggioso di Ricomincio da tre, è uno di questi segnali. Oppure quella di mandare all’aria le nozze sull’altare (in Pensavo fosse amore…) per una sfiducia atavica nell’istituto matrimoniale, che non voleva però tradursi in una sfiducia maggiore nell’amore: “Io non è che sono contrario al matrimonio, ma in particolare credo che un uomo e una donna siano le persone meno adatte a sposarsi tra di loro, sono troppo diversi”. Quell’amore che Troisi inseguiva metafisicamente come ideale supremo ed irraggiungibile, spinta esasperata ed esasperante di una vita a cui lui andava incontro come tutti gli altri.
La fragilità dell’anima di Massimo, insieme a quella del suo cuore, vengono sondate dallo sguardo di Martone con un affetto e una sensibilità che forse solo la dialettica da regista a regista, da napoletano a napoletano, riescono a restituire in modo così autenticamente poetico nel documentario. Lo smarrimento sentimentale del suo personaggio sullo schermo, espresso tramite quella sua cifra espressiva personale e irripetibile, la gestualità (quella mano che torturava il sopracciglio), il fraseggio unico (che solo un altro grande artista come Eduardo aveva personificato) riuscivano a far parlare una intera generazione attraverso la sua comicità.
L’uso del napoletano divenne quasi “un fatto ideologico”, per lui fu come un'ostinazione volerlo usare in modo non spettacolare, non semplicistico, ma naturale e rivoluzionario, come strumento di adesione ad una cultura (popolare e dialettale) che si rifiutava di tradire, ma dalla quale allo stesso tempo esigeva un cambiamento. Troisi fu un rivoluzionario, animato dalla volontà di fare le cose a modo suo, non piegandosi a regole calate dall’alto. La grande vittoria di Massimo Troisi fu insomma quella di non tradire le sue origini e riuscire a parlare a una platea di spettatori capaci di identificarsi con lui senza essere necessariamente tutti napoletani.
L’universalità del suo messaggio, insieme alla misura della sua poetica, vengono riportate a galla dalla intelligente costruzione martoniana capace di mescolare sapientemente immagini di repertorio, spezzoni di film, contributi televisivi e documenti inediti (come i foglietti autografi con pensieri e poesie custoditi dalla Pavignano) e preziosi.
Laggiù qualcuno mi ama è un film con cui Massimo Troisi, a settant'anni dalla sua venuta al mondo, torna al cinema per essere riascoltato, rivisto per stare con il suo pubblico ancora una volta e per insegnarci che a volte anche la fragilità può esplodere come tratto umano capace di rivoluzioni silenziose, ma durature.