Ci sono film dove la bicicletta assume un ruolo salvifico e poetico, come nella scena del volo dell’extraterrestre e del piccolo Elliot che scappano dalla terra stagliandosi sulla luna magica in E.T di Steven Spielberg.

In qualche modo, con la medesima simbologia di fuga e via d’uscita, la bicicletta compare sin dalle prime scene e salverà la protagonista del film L’albero, prova d’esordio di Sara Petraglia, presentato nella sezione “Progressive” della 19esima edizione del Festival del Cinema di Roma, prodotto dalla Bibi Film e distribuito da Fandango, un lungometraggio autobiografico  molto intimo che traspone un frammento della storia della regista e sceneggiatrice in un racconto metropolitano, denso, in cui immortala con autenticità la potente bellezza della gioventù, la sua fugacità, il percorso tortuoso per l’approdo al sé adulto.

Per questo ritratto generazionale, un piccolo gioiello realizzato in sole quattro settimane, il cui nome originale doveva essere Anni Luce, alla fine la regista ha scelto un titolo diverso per rendere omaggio al pino domestico che svettava come un totem arboreo nel cemento urbano di Roma, depositario del ricordo di quegli anni poetici, feroci, onirici, passati, l’albero che vedeva dalla finestra del suo appartamento del quartiere Pigneto, dove è ambientato il film.

Il lungometraggio racconta la storia dell’amicizia tra due ventenni, Bianca (Tecla Insolia) e Angelica (Carlotta Gamba) e della multiforme e fluida modalità del suo manifestarsi, una storia  che ha il coraggio di mostrare, sospendendo il giudizio, la vita di due ragazze di buona famiglia che decidono di andare a convivere e diventano poli-assuntrici di sostanze stupefacenti, ne abusano, e attraverso il filtro caleidoscopico della dipendenza si immergono nel flusso della vita, dell’amore, del mondo, finendo per approdare anche  a Napoli al cospetto di una umanità varia e multiforme,  osservata e descritta in chiave quasi documentaristica.

Sara Petraglia adotta un’estetica minimalista, con primi piani che valorizzano l’ottima prova attoriale di entrambe le attrici, a cui si riconosce il merito della buona riuscita del film, dirigendo un film intenso che spinge sull’indagine psicologica del femminile, un ritratto generazionale che diventa leopardianamente malinconico e riesce a equilibrare con maestria la pulsione all’annientamento e la voglia di vivere che alla fine prevale.

L'albero brilla per i dialoghi introspettivi e rivelatori, per le riflessioni sorrette dalla voce narrante di Bianca, con una sintassi filmica che procede a ellissi, funzionale alla percezione onirica del mondo delle protagoniste ma non sempre efficace. La fotografia di Sabrina Varani contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, da limbo avulso dalle regole sociali, dove alla fine ciò che conta è vivere la vita intensamente con una combriccola di sodali sulla tua stessa lunghezza d’onda e riuscire ad averne dolcemente nostalgia quando quel tempo sarà passato, se sarai sopravvissuta.