Amerikanšcina è come dire “roba americana”, “americanate”. E negli anni Venti i cinema dell'Unione Sovietica sono pieni di amerikanšcina, capaci di affascinare tanto la massa quanto l'avanguardia. Gli Stati Uniti rappresentano il dinamismo, l'eccitazione per il nuovo, l'efficienza produttiva, e confezionano ed esportano pellicole di successo. Dato che l'intrattenimento è un ottimo investimento, soprattutto nei primi anni della NEP si tollera la produzione di un filone sovietico all'americana, purché privo di deviazioni ideologiche. Da I diavoletti rossi (1923) al serial Miss Mend (1926), spuntano pellicole che ricorrono a stilemi e generi d'oltreoceano per cavalcare l'onda dell'americanismo, o dell'americanite, a seconda dei punti di vista. Sorge il dubbio che questa moda possa avere radici profonde, che vanno ben oltre la corsa all'industrializzazione.
Dimostrando grande attenzione verso i comportamenti di massa, sin dal suo esordio alla regia con Il progetto dell'ingegner Pright (1918), Lev Kulešov si fa portavoce di un americanismo critico, che gli permette di interrogarsi su un'etica del consumo cinematografico e di gettare le basi per una specificità sovietica, individuata in primis nel montaggio. La posizione di Kulešov, tuttavia, diventa sempre più polemica, tanto che ne In nome della legge (1926) il regista mostra un americanismo ormai lontanissimo dall'approccio positivo tipico dei film commerciali del periodo, che si trasforma anzi nel mezzo per manifestare un profondo disagio culturale.
Il film di Kulešov, con sceneggiatura di Viktor Šklovskij, è tratto dal racconto The Unexpected di Jack London, autore notoriamente ossessionato dalla ricerca di una nuova frontiera. L'ambientazione lontana e il ricorso all'immaginario della natura selvaggia permettono una sorta di sovrapposizione culturale, poiché la tensione tra vecchio e nuovo che in Russia fa quasi un tutt'uno con l'arrivo delle idee rivoluzionarie (e permea, prima ancora che il cinema, la letteratura, almeno dalla seconda metà dell'Ottocento), con il concreto verificarsi della rivoluzione viene esasperata in una sorta di mitologia della tabula rasa, che con il concetto di frontiera ha qualcosa in comune - e che può forse fornire una lettura dello smodato interesse per i prodotti culturali d'oltreoceano.
Eppure In nome della legge, come già The Unexpected, è espressione di un cupo pessimismo, di sfiducia e disillusione, della crisi legata all'avvento del progresso, che comporta l'inevitabile messa in discussione dell'ideale. Nel film, la vicenda del processo a Dennin permette la critica di una giustizia vissuta come coercizione e più in generale di un sistema artefatto e retorico che tende pericolosamente alla violenza organizzata. Al di là di precise interpretazioni, come l'individuazione della polemica sull'allora recente codificazione del diritto o quella sul cinema sovietico in quanto istituzione sempre più soffocante, l'archetipica contrapposizione tra wilderness e civilization mutuata da London permette a Kulešov di portare alla luce il disagio culturale nato nel momento in cui, esauritosi lo slancio rivoluzionario, si assiste alla traduzione dell'ideale in sistema e alla sua inevitabile ed irreversibile corruzione. In una manciata d'anni la rapidità dei mutamenti politici, economici e sociali minaccia la sopravvivenza di una mitologia che risulta indispensabile alla causa socialista. In nome della legge è un film della crisi dell'ideale, quella stessa crisi che la produzione di amerikanšcina ha lo scopo di arginare.