Frank Tuttle e Stuart Heisler si ritrovano nel nome di Dashiell Hammett, adattando entrambi il romanzo La chiave di vetro a distanza di sette anni, nel 1935 il primo, nel 1942 il secondo. La storia, naturalmente, è la stessa: Ed Beaumont è il protettore, ma anche socio, amico e consigliere, di Paul Madvig, uomo d’affari dal passato poco limpido, tanto influente da poter condizionare le elezioni locali e manovrare sfacciatamente le forze dell’ordine.Il suo potere è insidiato da un gangster rivale che ha invece il controllo dei giornali, dai quali può manovrare la percezione dell’opinione pubblica. Quando il figlio del senatore appoggiato da Madvig viene trovato ucciso, i sospetti ricadono su Madvig, in pessimi rapporti con la vittima a causa della sua relazione con la figlia (o sorella, nel caso del film di Heisler). Sono diversi i nemici di Paul che, supportati o meno dall’evidenza, hanno buon gioco a credere che sia stato proprio lui; sarà Ed, in qualità di suo sodale ma anche convinto della sua innocenza, a indagare per conto suo e scoprire la verità, con metodi non sempre ortodossi e soprattutto sfruttando la capacità di carpire le intenzioni nascoste di chi ha davanti.La “chiave di vetro” è la metafora che usa Ed per mettere in guardia Paul sulla fragilità e innaturalità del rapporto di alleanza tra un politico riformista e uno come lui.
Il diverso tono dei due film, appaiati in una sorta di double bill mattutino al Cinema Ritrovato 2020, dà luogo a un interessante caso di doppia variazione sul tema, incarnata dai due Ed rispettivamente interpretati da George Raft e Alan Ladd: il primo è diretto e ironico, a tratti persino spensierato, il secondo più obliquo e impassibile, capace di manipolazioni ben più ciniche. Differenze che riverberano sia nello stile – essenziale nel primo film, elaborato e supportato da una macchina da presa molto più mobile nel secondo – sia nell’andamento della narrazione intorno ai protagonisti: più asciutto e rapido La chiave di vetro di Tuttle, in cui il dettaglio determinante per la risoluzione finale è suggerito molto presto, più elaborato e grave quello di Heisler, che dà alle false piste una direzione più contorta e cupa, con la sequenza, assente nel primo film, dell’incontro alla villa dell’editore Matthews, che culmina in modo drammatico. Dall’altro lato, i due film condividono molti dialoghi, ripresi dal libro, e Heisler cita esplicitamente alcune inquadrature del collega, come i brutti calzini di Madvig, il calcio nello stinco, e gli occhiali calpestati. Particolare rilevanza è data in entrambi al punto di vista dei giornali sulla vicenda e alla volubilità della cittadinanza, che ha un’opinione su tutto ma che può rapidamente cambiarla all’occorrenza.
Anche il sodalizio tra Alan Ladd e Veronica Lake, protagonisti del film di Heisler (e già visti in questa edizione del festival in I fuorilegge di Tuttle), ha certamente influenzato le differenze narrative: il film del 1942 espande, a volte in modo un po’ forzato, il ruolo del personaggio di Lake, la figlia del senatore, fino a un finale, diverso dal primo film, che sembra una scelta obbligata più che il credibile coronamento di un amore. E a dispetto della maggiore fama, e più facile reperibilità, del film di Heisler, se fossimo costretti a scegliere solo uno di questi due adattamenti comunque imperdibili, diremmo forse che è quello di Tuttle che intrattiene e meraviglia di più, con la sua atmosfera meno classificabile e un George Raft particolarmente valorizzato da un personaggio così sfumato.