In Primary, il rivoluzionario documentario sulla campagna per le primarie dei Democratici nel 1960, Robert Drew parte dalle differenze tra i due candidati principali, il rodato senatore Hubert Humphrey e il rampante John, rampollo del clan Kennedy, per raccontare due approcci diversi alla politica. Se il primo distribuisce santini elettorali per strada, parla spiccio di agricoltura e si fa accerchiare da operai, il secondo stringe mani con meccanica empatia, si eleva quasi spiritualmente sul palco e punta all’emozione della platea.
Il celebre pedinamento dei coniugi Kennedy in mezzo alla folla è come l’apertura delle acque. Scesi sulla terra per ricordare la nostra subalternità, i due sono ripresi di spalle e non si vedono mai in faccia, al pari di Gesù nei kolossal della Hollywood di fine anni cinquanta. Jackie è perfetta: sempre un passo prima del marito, una poliglotta vestale dell’upper class che si rivolge in polacco agli immigrati festanti, la garante del glamour fino ad allora delegato solo alle star dello showbiz. Il confronto con la simpatica ma non avvenente signora Humphrey è perfino sleale, troppo terrena rispetto alla giovane regina della nuova Camelot. Nel frangente storico in cui il sistema cinematografico cede di fronte ai divismi alternativi, e ne comincia a proporre di meno irraggiungibili fino all’avvento della New Hollywood, i Kennedy si assumono l’onere di eternare il «fugace barlume di gloria» del loro apogeo trino (Jackie, John, Bobby).
Jackie parte da questo assunto: la consapevolezza dell’eroina titolare di essere l’unica vera diva della sua stagione in grado di poter entrare nella storia. Per farlo, ha bisogno del potere mediatico, della finzione indispensabile alla realtà. Anche nella tessitura memorialistica non lineare di Noah Oppenheim emergono tutti i segni che già Drew aveva messo in risalto. La conoscenza di più lingue (arrivata in Texas, parla in spagnolo, seconda lingua dello Stato) la rende una cittadina del mondo, il cui compito è accogliere gli altri nelle stanze inaccessibili eppure di tutti (la visita televisiva alla Casa Bianca, che le valse un Emmy, proprio come un’attrice) e rivendicare l’esistenza dello stile riproducibile (il suo corpo ridotto o esaltato dai manichini nella vetrina della boutique).
Come tutto il cinema di Pablo Larraín, anche Jackie è un trattato sulla manipolazione. Lo è perché Jackie stessa ne è massima fautrice, in un pullover bianco che mitiga esteticamente il lutto che (ri)fonda il suo mito: prima si mostra debole, fragile e tradita al cospetto del giornalista e un attimo dopo impone la narrazione opposta quindi ufficiale («non pensi nemmeno per un attimo che glielo lascerò pubblicare»). Sotto la superficie dell’incanto, Jackie alimenta l’enigma già indagato da Drew, che in Primary semina il germe del sospetto quando osserva i sorrisi dei raggianti pretendenti alla corona, attori della messinscena del potere.
Culmine della rappresentazione, il funerale del presidente esposto da Drew in Faces of November, un’elegia di immagini accumulate lungo dodici minuti, sembra dialogare con quello ricostruito da Larraín. La seducente moglie è diventata una devastata vedova bardata a lutto, la cui testa emerge dal buio dell’immagine (Drew) o si nasconde sotto il velo (Larraín). Una madonna piangente cosciente del proprio ruolo, che sussurra ai figlioletti dove mettere i piedi e cosa non fare, sorride alla folla perché nonostante tutto bisogna garantire la serenità, si fa scortare dai cognati Bobby e Ted. La famiglia reale al completo, la testa di un corteo gremito soprattutto di donne in lacrime. Un re lascia sempre molte vedove ma ad una sola spetta la corona.
Lorenzo Ciofani