Se qualcuno dovesse provare a raccontare metaforicamente l’essenza di un evento come la Mostra del Cinema di Venezia e, più in generale, di una kermesse culturale, avrebbe gioco facile nel portare come esempio il cine-detour di Stephan Brizé.
Le occasioni dell’amore è un non-luogo cinematografo in cui andare alla ricerca di sé stessi finendo per ritrovare amori ancora incandescenti, sotto la cenere inesorabile del tempo che passa. Quello che, con poca consapevolezza, fa ogni avventore di rassegne in cui programmi, sezioni parallele e retrospettive alimentano la passione che solleva gli animi inquieti che inanellano pazientemente un giorno dietro l’altro.
La talassoterapia a cui la cinquantenne star del cinema Mathieu (Guillame Canet) viene sottoposto sulle coste francese è un po’ il consiglio che veniva proposto ai ricchi e facoltosi del primo Novecento presso il lido di Venezia, aggiungendo come potente incentivo la magia del cinema sulla terrazza dell’Hotel Excelsior. Una vacanza per prendersi cura di sé stessi, esperienza che cerca di essere perpetuata in quelle ore al buio davanti a uno schermo illuminato da storie di ogni tipo. Con lo zampino, la stragrande maggioranza delle volte, dell’amore in ogni sua forma.
Ci si trova così lontani dai problemi ordinari ma vicinissimi a quelli invisibili, sotto-cutanei, che durano intere esistenze con interruzioni più o meno lunghe. Basta una sequenza, un frame, una nota, un messaggio in una chat per tornare al taglietto sul palato che si rimarginerebbe se si potesse fare a meno di stuzzicarlo sulla lingua, dovunque tu sia.
Non si parla di Marla in questo caso, ma di Alice (Alba Rohrwacher), la pianista italiana che aveva corrisposto il suo amore anni prima di una turbolenta separazione. E lentamente, ma non all’improvviso, ci si immerge in un fiume che sembra contraddire il pensiero di Eraclito, saltando di sala in sala, come di ricordo in ricordo, solo per assaporare l’illusione di aver colmato un vuoto. O almeno per un po’.
Il regista francese svicola dalla sua filmografia impegnata - direttamente per bocca del suo protagonista che rifiuta una sceneggiatura dalle tinte politiche - e si traveste un po’ da Lelouch, un po’ da Linklater, per condurci nei meandri di un meccanismo che alterna vuoti enormi, anche in termini di messinscena e tappeto sonoro, a densità emotiva tangibile, in una depressione cinematografica spesso estenuante per lo spettatore e gratificante per il cinefilo.
Nulla di nuovo sotto il sole, Flaubert lo scriveva in una delle sue lettere d’amore a Louise Colet: il futuro ci tormenta, il passato ci trattiene. È per questo che il presente ci sfugge. Chi può lo cerca, anche fuori stagione, nei cinema in piazza, nei cineforum, nei multiplex e nella moltitudine di luoghi che si presta ad accogliere il cinema per imparare a lasciarsi andare. Magari, dopo il prossimo film-vacanza.