Nell’orbita delle produzioni cinematografiche o televisive dedicate alla spinosa e purtroppo sempreverde questione israelo-palestinese, Arab-Israeli dialogue si presenta alla vista dell’osservatore contemporaneo come un prodotto più unico che raro, alla cui apparente semplicità spoglia fa da contraltare una profondità intellettuale ed umana quasi inaspettata. Quale sia l’oggetto dell’opera di Lionel Rogosin, la cui lunghezza si limita a 40 minuti quanto mai incisivi, è presto detto: una conversazione tra due amici, Amos Kennan e Rashid Hussein. Il primo, autore ed artista israeliano, legato alle posizioni del socialismo sionista, combattente per la Lehi prima e l’IDF poi; il secondo, poeta palestinese e profugo. Filmato una settimana prima dello scoppio della guerra dello Yom Kippur, è stato presentato – ça va sans dire, in versione restaurata – in un appuntamento pomeridiano all’Auditorium-DAMSLab, congiuntamente con Imagine Peace, documentario girato da Michael Rogosin, che di Arab-Israeli dialogue costituisce la doverosa integrazione. Qui di seguito, pubblichiamo la conversazione avuta con Michael Rogosin, il quale – assieme al fratello Daniel – si occupa da quindici anni di recuperare e diffondere la produzione artistica del padre.
Vorrei innanzitutto chiederle come, nel riprendere e restituire al mondo l’immagine della produzione di suo padre, sia riuscito a conciliare la sfera privata con quella pubblica.
Fondamentalmente, questa è una storia lunga, perché ha a che fare con la mia crescita umana. Come sai bene, mio padre non fu solamente regista, ma anche un distributore, che fondò e gestì il Bleecker Streets Cinema a New York. Quindi, sia io che mio fratello vivevamo decisamente a contatto col cinema, non solamente con i film di nostro padre. D’altro canto, capivamo quanto i suoi film fossero abbastanza inusuali per l’epoca, vedendo i suoi tentativi per realizzarli e le difficoltà incontrate in America, dove non si trovavano assolutamente aiuti o finanziamenti per questo tipo di cinema. Ciò malgrado, lui non ci ha mai parlato dei film che aveva realizzato, mai! Non diceva: nel 1956 ho girato On the Bowery o cose così…no! Lui pensava sempre al film o ai film che stava realizzando o che doveva realizzare in futuro, punto. I discorsi vertevano invece più su temi di antropologia o politica, visto che ne era ossessionato.
La produzione cinematografica di suo padre partiva da una prospettiva antimperialista decisamente solida.
Sì, all’epoca era molto radicale per l’America. Già quando realizzò Good times, Wonderful times, i produttori americani gli diedero del matto, consigliandogli di andare in Inghilterra o comunque oltreoceano, per la produzione. Come ben sai, gli ultimi film vennero fatti con budget bassissimo: Arab-Israeli dialogue è stato girato in una cantina, con spese quasi inesistenti. Mio padre certamente era politicamente molto più maturo dei suoi coetanei: a 18 anni si dichiarava già antimperialista e anticolonialista, aveva combattuto nella Seconda Guerra Mondiale ed era stato anche coinvolto con la fondazione dello Stato di Israele, dove si recò nel 1948.
Guardando con gli occhi del presente questa istantanea del 1973, quello che emerge maggiormente è l’unicità del dialogo: sia la formazione intellettuale dei protagonisti, sia il loro modo di affrontare senza imbarazzi o ipocrisie una discussione così complessa, sembrano difficili da replicare oggi.
Ho sempre trovato i film di mio padre peculiari proprio per questa prospettiva sull’umanità dei protagonisti. Personalmente, scoprire – come ho raccontato in Imagine Peace – una foto che mi ritraeva da piccolo assieme a Rashid è stato incredibile; dopodiché, più informazioni raccogli su queste due personalità, più interessante appare tutta la conversazione. Certo, conta molto il fatto che sia Rashid che Amos fossero artisti: come dice il primo, si spera sempre che gli artisti non assumano mai un punto di vista nazionalista. Kenan è stato un’altra personalità radicale del suo tempo, stiamo parlando di una persona che ha combattuto, ucciso anche soldati inglesi e palestinesi: sicuramente tutti e due non erano uomini comuni nemmeno per i loro tempi.
A distanza di 46 anni e con una situazione decisamente mutata, rimane uno sguardo quasi inedito sulla questione israelo-palestinese.
Non penso che nessuno abbia mai pensato di fare qualcosa del genere, già nel ’73. Poi molte cose sono cambiate e non in meglio, mentre mio padre pensava che la situazione potesse migliorare: per questo, credo che il dibattito oggi davanti a un film così sarebbe decisamente differente. Sull’importanza di proiettare ancora oggi Arab-Israeli dialogue, in quanto testimonianza di uno dei più grandi problemi del XX secolo, concorda anche la Cineteca di Bologna: grazie ad una collaborazione che è iniziata nel 2004 ed ha visto anche la partecipazione della Mostra del Cinema di Venezia, abbiamo potuto far ricircolare le opere di mio padre, a partire da Come back Africa.