Nel giudicare l’universo Gomorra, quello che è riuscito a svincolarsi con prepotenza dal romanzo di Roberto Saviano, si fa troppo spesso leva sulla messa in scena della violenza, sulla pericolosità degli stereotipi nel trasformarsi in pregiudizi. Il dibattito sul realismo e sulle eventuali motivazioni che dovrebbero, eventualmente e secondo alcuni, stare alla base di un prodotto audiovisivo affinché risulti “didattico” e “sicuro”, si allontanano sempre di più dalla possibilità di descrivere efficacemente la potenza narrativa ed estetica di questi mondi crossmediali. Tali espansioni – a partire dal film di Garrone per arrivare alle quattro fortunatissime stagioni di Gomorra – La serie – sono state capaci di raccontare impietosamente e a un pubblico vastissimo realtà drammatiche come lo smaltimento dei rifiuti in Campania, l’addestramento feroce delle paranze, l’omicidio di Gelsomina Verde e altre tragiche conseguenze delle faide di Scampia e Secondigliano. Tuttavia, quel che spesso passa inosservato è il modo in cui questi prodotti abbiano re-inventato un genere, proponendo un proprio stile riconoscibile, visivo e dialogico, che imprigiona sapientemente i personaggi nelle proprie solitudini e che, ancora più radicalmente, ne ritrae l’aridità.
È su queste premesse che nasce L’immortale, opera prima di Marco D’Amore. Uno spin-off di Gomorra – La serie, senza dubbio, ma soprattutto un modo per fare i conti col proprio personaggio, di tracciarne ancora più fortemente i tratti e, in qualche modo, di scenderci a patti. Con un coup de théâtre che sovverte la regola d’oro del prodotto di riferimento che, nella sua estrema crudezza, rende ingiustificato l’utilizzo di deus ex machina volti a “riportare in vita” i personaggi, scopriamo che Ciro Di Marzio è sopravvissuto (davvero) miracolosamente al colpo inflittogli da Genny Savastano. Il pretesto, in quanto tale, serve soltanto a dare il via a un’epopea nuova e già nota: il naturale svolgimento di una saga priva di eroi.
L’immortalità è la vera condanna che pesa sul capo di Ciro Di Marzio, spietato scissionista di Secondigliano. Dei feroci crimini che ha commesso non ricorda più le motivazioni e sa solo che la morte, verso cui intimamente tende, non è ancora disposta a offrirgli il suo bacio liberatorio. Partito per la Lettonia per gestire un traffico di droga con la malavita russa, Ciro si troverà a danzare con una serie di flashback che aiuteranno a delineare più nitidamente il profilo del personaggio. Saranno gli incontri, una luce al neon sfarfallante, un paesaggio, a riportarlo – e a riportarci – violentemente indietro nel tempo, mentre i colori acidi del presente si mescolano alle illusioni patinate degli anni ’80.
Non si può non apprezzare l’ingegno che Marco D’Amore dimostra nel realizzare un prodotto indipendente e, allo stesso tempo, legato a filo doppio con la serie. Co-sceneggiatore, regista e, naturalmente, attore, D’Amore cura la sua creatura con modestia, senza troppi eccessi e ingenuità, lasciando che lo scetticismo svanisca tra le pieghe di un film che respira in sintonia – a livello estetico, storico, sonoro e narrativo – con ogni singolo episodio della serie. Si potrebbe anzi obiettare che L’immortale, se frammentato, non avrebbe sfigurato come parte integrante del prodotto televisivo, ma l’approdo sul grande schermo sancisce ancora una volta l’importanza di Gomorra nel ridefinire i limiti del genere crime a livello internazionale.
Non è soltanto la carica realistica della scrittura che, in questo caso, affonda le sue radici nell’espansione urbanistica post-terremoto dell’Irpinia, ma la rappresentazione convincente di un’umanità smarrita, sotto forma di epica infetta. Perché comprendere le dinamiche che hanno forgiato l’Immortale non significa giustificarne le azioni. Significa entrare a fondo nel fallimento sociale e uscirci a discapito delle proprie certezze più salde, come sceglie di fare Marco D’Amore, rinunciando alla propria liberazione.