C’è già stata la morte di Luigi XIV nella filmografia di Albert Serra, qui, invece, c’è la morte di Luigi XV e le conseguenze della corte puritana di Luigi XVI. È il 1774 e un gruppo di libertini, espulsi dalla corte del Re, vagano alla ricerca di un luogo idilliaco che possa accogliere il loro libertinismo. Persi nel loro stesso desiderio che li sopraffà, rimangono inguaiati in piena notte in una foresta indefinita che è un limbo tanto sessuale quanto disperato.
Liberté non può che essere il nuovo (e quinto) film di Albert Serra - regista catalano che più di tutti, oggi, lavora all’ibridazione tra cinema e arte contemporanea - che, come sempre, traendo ispirazione da un fatto storico o da un’icona narrativa, mette in scena “de-drammatizzazione”, asciugando i nuclei narrativi di base e restituendo un tempo realistico e sospeso, lontano dagli intrecci e dai conflitti, de-sacralizzato ma non dissacrante, incentrato esclusivamente su un’idea, un concetto ribadito all’estremo. Se, allora, in Historia de la Meva Mort (“storpiatura” delle memorie di Casanova: Storia della mia vita) raccontare Casanova era un pretesto per mettere in scena l’illuminismo in decadenza e in transizione con il romanticismo (dato dalla comparsa a metà film di Dracula), qui il gruppo di libertini assume i connotati di agnelli sacrificali rappresentanti la fine del libertinismo, mediante le ultime pratiche (messe in scena in sequenze quasi antologiche) sessuali, sadiche e perverse: gli ultimi, sofferti, atti di libertinaggio.
Sostituire la narrazione con l’azione, quindi. Tutto ciò che si cela dietro il libertinismo (storie, intrecci, aneddoti) si muta esclusivamente in sesso sadico e perverso. Resta unicamente l’azione e, oltre al sesso, nessun racconto, nessun protagonista, ma un’idea e un concetto. Non solo, l’azione, a sua volta, si muta in osservazione. Albert Serra, regista “osservante” e “contemplativo” (come, tra gli altri, Tsai Ming-liang e Béla Tarr) realizza un film che gioca con il voyeurismo (ovvio, se si accosta cinema e pratiche sessuali) il quale è sia una sfida allo spettatore, chiamato a guardare partecipante il declino dell’azione libertina, che una caratteristica dei personaggi, a loro volta voyeur. Ogni sequenza erotica e carnale non è mai esclusiva di due personaggi, c’è sempre un terzo, quarto o quinto sguardo; tante sono le sequenze sessuali quanto quelle rappresentanti personaggi osservati e osservanti, sia in campo che controcampo.
Liberté nasce da una pièce teatrale omonima, diretta dal regista stesso e messa in scena nella primavera del 2018 al Volksbühne di Berlino. È proprio dal teatro che nasce questo film che è più una performance, una danza genitale incentrata su gesti degli attori, irripetibili e fatali. Il passaggio al cinema, però, è essenziale per guadagnare dinamicità e per proseguire quel suo lavoro, sull’attore e sui luoghi, da sempre in bilico tra teatro e cinema. Se nell’opera di Serra, come in questo film, il realismo è palpabile - dai silenzi, dagli sguardi, dai vuoti e dal rumore continuo delle cicale in sottofondo - vi è, altrettanto, una forte dose di finzione, di estetica teatrale: la luce, per esempio, è quasi esclusivamente data dalla luna che illumina i volti e le gesta, ma non viene mai inquadrata ed è infatti artificiale, a favore di un risultato più stilizzante e teatrale.
Non c’è nessuna icona in questo ultimo film del regista catalano, se prima c’erano Don Chisciotte, i Re Magi, Casanova e Luigi XIV; qui c’è un gruppo, ovviamente identificato nei libertini ma indefinito, più di tutti c’è una condizione storica giunta alla sua notte, uomini schiavi del processo storico. Vittime di un piacere sempre meno appagato, sempre più disperato, in questo “bosco avvelenato” dove la notte è sempre più buia e dove il declino rappresentato non è, forse, solo quello del libertinismo.