“Era un genio. Ti dovresti fare il segno della croce quando parli di lui. Recitavamo tutti per lui senza essere pagati perché era un genio”. Queste frasi su Orson Welles vengono ripetute quasi in modo ossessivo da Marlene Dietrich nel documentario Marlene (1984) di Maximilian Schell in risposta alla domanda sulla sua esperienza di attrice per Welles.

Si tratta di uno dei pochi momenti del documentario in cui la diva non prova a porsi al di sopra della persona o del film di cui parla per concedere, al contrario, un sentito omaggio al regista che la diresse ne L’infernale Quinlan (1958). Quello di Tanya, cartomante e tenutaria di un bordello lungo l’incerto confine di Los Robles tra Stati Uniti e Messico ricreato a Los Angeles, è un ruolo secondario, ma a cui viene affidata la chiusura del film, con parole che acquistano una grande risonanza in una notte che sembra dover continuare all’infinito.

A differenza degli altri due guest star d’eccezione presenti nel film, Joseph Cotten e Zsa Zsa Gabor, Dietrich incarna un personaggio più definito e con una statura in grado di stare al pari con i protagonisti. Tanya ha infatti l’ultima parola sul poliziotto Hank Quinlan (Orson Welles), e può pronunciare su di lui una sentenza che nemmeno all’antagonista vincitore del corrotto poliziotto, il giudice Vargas interpretato da Charlton Heston, è permesso dare.

Magistrato messicano che ha appena arrestato un’importante trafficante di droga della famiglia Grandi, Vargas si trova a Los Robles in luna di miele con la moglie americana Susie (Janet Leigh) ed è involontariamente coinvolto nell’indagine che il corrotto e razzista poliziotto americano Hank Quinlan inizia a condurre sull’omicidio di un ricco imprenditore locale.

Vargas riesce a smascherare i metodi illegali di Quinlan: tuttavia, l’ambiguità morale che regna su tutto il film e che la conclusione non vuole risolvere pienamente, lo forza ad uscire di scena prima di potersi godere il suo trionfo. Sono di Tanya le parole che non assolvono certamente Quinlan (“he was a lousy cop”), ma nemmeno lo condannano, rendendogli omaggio (“he was some kind of a man”) e affermando l’inutilità del giudizio umano (“what does it matter what you say about people”).

Annunciato da Newsweek come la grande occasione per il ritorno a Hollywood del prodigio Welles dopo dieci anni trascorsi in Europa, L’infernale Quinlan (1958) ebbe invece una lavorazione complicata che culminò con la decisione della Universal di esautorare il regista dalla postproduzione e incaricare Harry Keller di dirigere alcune scene per migliorare la continuità e la comprensibilità del film.

L’uscita in sala ne decretò l’insuccesso commerciale e la rivalutazione critica non fu immediata. Trascurato da Borde e Chaumeton nella Postfazione aggiunta al loro Panorama du film noir americain pur esibendo chiaramente tutte quelle caratteristiche (onirismo, crudeltà, ambiguità morale, erotismo) che i due teorici ponevano a fondamento del noir, ed estremizzandole in chiave barocca, L’infernale Quinlan venne infine riconosciuto come “film noir’s epitaph” da Paul Schrader nel suo influente saggio sul genere e alcune soluzioni formali del film, come il celebre piano sequenza iniziale, sono entrate nella storia del cinema.

La sentenza finale di Tanya è, per riprendere la definizione di Schrader, un epitaffio: nelle sue parole, tuttavia, il soggetto non è il genere ma l’autore, quel genio al cui solo sentirne il nome, avrebbe successivamente dichiarato Marlene, ci si sarebbe dovuto fare il segno della croce.