Il titolo originale, Mostro, contribuisce più dell’italiano L’innocenza, quasi opposto, a (dis)orientare chi si accinge ad aprire la scatola dell’ultimo film di Hirokazu Kore’eda. Affezionato lui a un cinema di manipolazione empatica del pubblico, e grati noi per i limpidi inganni che tesse a nostro beneficio, il titolo come porta d’accesso al film ne prelude minacciose atmosfere horror, che lo stile riprova, avvincente e inquietante.

Perché Minato, all’ultimo anno di elementari, prende di colpo a comportarsi in modo strano, aggressivo e autolesionista, a casa e a scuola? Misterioso con la mamma, affettuosa giocherellona e unica adulta di famiglia dopo la morte del padre del bambino, le racconta di essere vittima di percosse e offese del maestro Hori, che forse ammette o forse no, davanti a preside e colleghi in estenuanti incontri formali negli uffici della scuola, atteggiamenti non corretti verso Minato.

E cosa lega il bambino al compagno di classe Yori, se quest’ultimo, viso angelico e yo-yo a fendere con sicurezza l’aria, conferma i maltrattamenti su Minato del maestro Hori, che a sua volta denuncia angherie da bullo perpetrate da Minato su Yori, isolatissimo a scuola?

Dobbiamo credere al padre di Yori, quando rivela all’insegnante che suo figlio è un mostro, o alla gentilezza e alla fiducia con cui il bambino accoglie in casa la mamma di Minato, determinata a capire l’origine dell’improvvisa inquietudine del figlio?

Bambini ombrosi o sorridenti, malati o normalissimi, senza mamma ma con padri tossici, o senza padre ma con mamme premurose; giovani maestri in cerca di verità e forse vittime attive e passive di bugie, e anziane presidi sepolte sotto deflagranti menzogne. Su questi specchi mobili si snoda la sceneggiatura di Yûji Sakamoto, premiata a Cannes ’23, che cambia a più riprese prospettiva per ribaltare significati, offrendosi con ciclici “cliffhanger” a quelle geometrie visive calde e irregolari, e calde perché irregolari, che sono il marchio di fabbrica del miglior Kore’eda.   

Dopo La sala professori, la scuola contemporanea torna al cinema con i suoi enigmatici alunni in crescita, genitori in difficoltà e insegnanti in affanno. Questa volta con un ingranaggio fatto di punti di vista, che ruota dal mistery all’horror al racconto di formazione, in un disvelamento graduale dei fatti, disegnato per sabotare ogni ipotesi precedentemente alimentata, e orientato verso lo stesso prezioso centro da tre diverse direzioni, mai ascritte ai personaggi in scena, benché dedicate ciascuna a uno, due o tre di loro.

In tale ordito, il solo elemento poco economico alla storia è quello legato alla vicenda privata della preside, che pur utile alle confidenze di Minato, non trova una sua piena collocazione nei percorsi incrociati del film.

Strade, corridoi, scale, binari, tunnel e boschi: sono questi gli spazi su cui lavora Kore’eda per insinuare il senso di pericolo sotteso a buona parte del film, amplificato dall’impossibilità a determinare chi sia pericolo e chi effettivamente la minaccia.

Lineare e simbolico, invece, lo sfondo atmosferico che la sceneggiatura di Sakamoto applica all’arco cronologico degli eventi, da una iniziale quiete fatta di laghi placidi e sole, alla tempesta violenta in cui i mostri, se davvero esistono, escono finalmente allo scoperto. Cioè a quella luce del sole che torna a splendere, amichevole e ospitale, in un luogo forse rinnovato, o forse inesistente.