Un nuovo tassello nella filmografia umanista di Hirokazu Kore’eda segna con L’innocenza il ritorno in Giappone dopo l’esperienza francese di Le verità (2019) e quella coreana di Le buone stelle – Broker (2022). Per la prima volta dall’esordio Maborosi (1995) Kore’eda si cimenta in una storia non sua ma scritta da Yuji Sakamoto, che ha vinto per questo film il premio alla miglior sceneggiatura al Festival di Cannes dell’anno scorso.

Lo sguardo empatico del regista non smette di interessarsi ai modi in cui gli affetti e le relazioni umane siano in grado di interrogare la complessità dell’esistenza, scardinare i preconcetti per ricercare il senso profondo delle cose. La predilezione per i legami affettivi non conformi (la famiglia come concetto multiforme e non come istituzione, vedi Un affare di famiglia, Le buone stelle – Broker) si manifesta qui su un nuovo terreno di esplorazione, un’attrazione tra due bambini che ricorda quella dello struggente Close di Lukas Dhont.

Ne L’innocenza si fa spazio a un quadro familiare alla poetica del regista, attenta alla quotidianità, sensibile alle emozioni universali, che ne riconferma l’abilissima capacità di afferrare il punto di vista dei bambini – un marchio di fabbrica di Kore’eda sin dai suoi primissimi lavori documentari (Lessons from a Calf).

La giovane madre vedova Saori (Sakura Ando, già in Un affare di famiglia) si accorge di alcuni strani comportamenti del figlio Minato, individuandone la causa in possibili maltrattamenti da parte del professore Hori. A nulla servono i colloqui con preside e insegnanti, che con inutili scuse e parole preimpostate cercano di rabbonire la donna per salvare la reputazione della scuola.

Ma come spesso accade nel cinema di Kore’eda, la situazione si capovolge rendendo necessario dare una nuova forma a ciò che prima si era dato per certo. Il professore infatti sembrerebbe vittima di fraintendimenti e Minato responsabile a sua volta di atti di bullismo contro il compagno di classe Yori, segnato a tal punto dagli abusi psicologici da esser convinto di avere "il cervello di un maiale".

Aprendosi su un allegorico edificio in fiamme nella città di Suwa, il rompicapo messo in scena da L’innocenza, accompagnato dalle ultime note di Ryuichi Sakamoto, (scomparso poco prima della conclusione del film) disorienta lo spettatore riavvolgendo il nastro degli eventi per considerarli ogni volta sotto una luce diversa. L’incendio divampa di nuovo, e un altro punto di vista aggiunge un dettaglio che costringe a rivalutare l’identificazione di vittime e carnefici.

Una modalità simile a quella di Rashomon, capolavoro del cinema giapponese già ampiamente citato a proposito della struttura "relativizzante" del film. A differenza della pellicola di Kurosawa però, Kore’eda non nega la possibilità di scoprire la verità dietro alle bugie dei personaggi, che dispiegano a poco a poco quella che si rivela una tenera storia d’amicizia e non solo tra Minato e Yori.

Chi è il mostro? L’innocenza, il cui titolo internazionale Monster mantiene a differenza della traduzione italiana il significato dell’originale Kaibutsu, è un film sull’emarginazione del diverso e sul bisogno disperato di salvare le apparenze in un contesto come quello nipponico caratterizzato dalla compostezza e dall’osservanza delle regole, dove la reputazione conta più di tutto.

Kore’eda dimostra ancora la propria capacità di elevare in modo non banale i sentimenti al di sopra delle aspettative sociali che vorrebbero disciplinarli, liberandone così un potenziale rivoluzionario. La cornice scolastica incarna un’autorità da mettere in discussione, gli schemi entro cui ci disponiamo sono ancora una volta ostacolo alla vera comprensione dell’esistenza e insufficienti a spiegare una realtà che appare spesso contraddittoria e inafferrabile (si pensa a Il terzo omicidio).

Ne L’innocenza non è tanto lo svelamento della verità morale a interessare, quanto il potere dello sguardo infantile di aprire gli orizzonti per guardare al di là delle barriere sociali. Uscire dagli schemi imposti significa arrischiarsi in un terreno di incertezza, dove se è preferibile non rivelare i propri segreti, li si potrà soffiare dentro uno strumento – una bellissima scena che riporta il dolore della preside, vittima anch’essa del sistema stesso che difende.

Non sono più i bambini costretti a fare gli adulti di Nobody Knows ma bambini che devono restare tali – anche a costo di credere in un tragico epilogo – per conservare un’autenticità di cui si fanno mediatori. Un tunnel spaventoso separa la dimensione degli adulti da quella dei bambini, ma una volta giunti al di là, nel bosco, ci si può scoprire diversi ed egualmente degni di felicità, nel luogo sospeso tra realtà e immaginazione dove Minato e Yuri giocano lontani dal mondo.