Il debutto alla regia di Fellini da solista è perfettamente espresso dal messaggio pubblicitario della cartolina promozionale di Lo sceicco bianco che recita: 'Oh sì, la vera vita è quella del sogno, ma a volte il sogno è un baratro fatale'. I protagonisti - i due neo-sposini che per la prima volta approdano nella Città Eterna - portano con sé i sogni di una generazione nata in provincia e che si è nutrita dei nuovi miti usciti dai rotocalchi e dal cinema americano.
Roma li fagocita, facendo a pezzi le fantasie con cui sono arrivati. La vicenda si dipana con ritmo serrato; si alternano sequenze di pura comicità – non si può non sentire la cattiveria delle slapstick del primo Charlot - a momenti in cui lo sguardo beffardo del regista si addolcisce, empatizzando con le sue creature. E più la vulnerabilità di Wanda e Ivan si fa palese, più nello spettatore si produce una duplice reazione; ride della loro discesa agli inferi, ma avverte che la piccolezza dei desideri e delle aspettative di un piccolo borghese come Ivan sono un po' anche le sue.
Scrive Bonicelli del personaggio interpretato da Leopoldo Trieste: "Un tipo che ci fa ridere spesso, ma senza farci dimenticare mai la realtà del dramma; per dire meglio, Ivan Cavalli, è certamente una caricatura d'uomo, ma proprio sicuri che egli sia diverso da ciascuno di noi, che sotto quei lineamenti contraffatti da un pianto grottesco non ci sia qualcosa di noi medesimi, proprio sicuri non siamo mai".
Ma Fellini affida all'attrice Brunella Bovo che interpreta Wanda, il compito di entrare nella tana del Bianconiglio: "È il mondo fatuo, luccicante e anarchico della gente che vive di notte, della café-society, degli imbroglioni e spostati, dei vari guitti del cinema, del teatro e della televisione. Vorremmo dire il mondo dello spettacolo, sorpreso però nel suo momento più intimo e sincero, dietro le quinte, a spettacolo finito. Questo mondo è osservato con un sentimento misto d'attrazione e di derisione, come da un provinciale sano e di buon senso che già ne subì il fascino e ne coltivò il mito". Così scrive Moravia, in una recensione pubblicata su L'Espresso nel luglio 1960, all'indomani della riedizione del film da parte di Rizzoli che sfrutta il clamore e il successo di La dolce vita, per rilanciare Lo sceicco bianco.
Ma nel 1952, Fellini non è ancora completamente Fellini e il film non viene capito. Selezionato per concorrere al Festival di Cannes accanto a Due soldi di speranza (Castellani), Umberto D. (De Sica), Il cappotto (Lattuada) e Guardie e ladri (Monicelli-Steno), viene inspiegabilmente lasciato a casa, senza che, sembra, la commissione che dovrebbe decidere quali opere vadano ai festival internazionali, sia stata consultata. Questa commissione era stata voluta dal sottosegretario alla presidenza del consiglio Giulio Andreotti che aveva scelto i suoi componenti tra le file di critici e registi, tra cui Alessandro Blasetti. Ma chi aveva l'ultima parola era un uomo di fiducia del governo, Nicola De Pirro, fascista riciclato, tristemente noto durante il ventennio per le sue posizioni intransigenti e censorie con le quali aveva gestito la Direzione Generale per il teatro.
Fellini, appresa la notizia dell'esclusione del suo film, scrive subito una lettera a Blasetti e sicuro di poter contare sulla sua amicizia e appoggio, sfoga senza riserve la frustrazione dell'ingiustizia di cui si sente vittima:
"Dopo avermi insistentemente pregato perché inviassi il film al festival, dopo aver rotto i coglioni in tutti i modi perché la commissione visionasse il film in qualunque condizione si trovasse (e tu sai quanto è doloroso accettare queste soluzioni), dopo aver accettato il film trionfalmente (i singoli membri mi hanno telefonato a casa confidandomi che il film era bellissimo, il più bello, ah com'è bello! Meno male che ci sei tu e Castellani al Festival! ...) e dopo aver ufficialmente comunicato a Rovere [il produttore] che il film faceva parte della selezione (corri a preparare la copia di grana fina, i sottotitoli, la brochure e tutte le scocciature che tu ben conosci), dopo tutto questo, di punto in bianco salta fuori la novità che lo Sceicco non va più a Cannes e sai perché? Perché improvvisamente il numero dei film concorrenti è stato ridotto da cinque a quattro! [...] Monaco [presidente dell'ANICA], avventatamente si lascia scappare detto che bisogna valorizzare certi attori: Totò! La Ponti De Laurentiis avrebbe dunque intimorito o comunque convinto l'Anica a lasciare Guardie e Ladri e a togliere il mio film."
Nel fondo Blasetti non c'è traccia della risposta che il regista ha dato a Fellini. Probabilmente si sono sentiti al telefono. E neppure nella stampa d'epoca si trovano notizie più dettagliate sulla vicenda. Nella biografia felliniana, Kezich riporta più o meno la stessa versione dei fatti, aggiungendo il particolare che Guardie e ladri non era già stato selezionato, ma sostituì Lo sceicco bianco. Come per Ivan e Wanda, anche per Fellini, sogni e aspettative si trasformano in un incubo.
Per compensare lo scorno subito da produttore e regista, il film concorre al Festival di Venezia, ma il giorno dopo la proiezione, la maggior parte delle recensioni è tiepida se non sfavorevole. Fatta eccezione per un pugno illuminato di critici tra cui Arturo Lanocita, Angelo Solmi, Adriano Baracco e Callisto Cosulich - che ne capisce la portata sovversiva, definendolo acutamente “il primo film anarchico italiano” -, la parabola di Lo sceicco bianco si conclude con una distribuzione limitata, un incasso misero e il fallimento del produttore Luigi Rovere che viene travolto dai debiti della società di distribuzione Fincine di cui era diventato socio.