Horror acquatico, film psicanalitico, thriller ad alta tensione e persino summa di un simbolismo animale letterario, Lo squalo è pura mitologia del blockbuster, opera che decreta il primo successo di Spielberg dopo il fallimento al botteghino di Sugarland Express.

 

Quando i produttori Richard Zanuck e David Brown proposero al regista un grande progetto commerciale, l’enfant prodige ci si tuffò a capofitto, dando vita a una superproduzione camuffata da granitico b-movie. Tanti furono i paradossi attraverso cui i giovani cineasti americani si interfacciarono con il successo commerciale negli anni in cui la New Hollywood, sospinta dalla seconda wave, virava verso lo spettacolo febbrile e iperrealista.

 

Al netto delle letture che sono state avanzate nel corso del tempo, a colpire, nello Squalo, è la resistenza, a distanza di quasi cinquant’anni, di un immaginario perturbante che ha prodotto sequel e rivisitazioni, ridefinendo il concetto stesso di paura sul grande schermo. Come in molte epopee spielberghiane, si parte da una narrazione semplice e lineare, base su cui si innesta l’evoluzione dei personaggi, sull’asse di un’azione debordante che cresce gradualmente. Prima che iniziasse la grande avventura per catturare lo squalo bianco, i protagonisti avevano altre vite e diverse consapevolezze; subito dopo la sua uccisione, Hooper e Brody raggiungono la riva aggrappati ai barili: la famiglia riunita è espunta dal rassicurante quadro domestico e la macchina da presa stringe sulle individualità che torneranno inevitabilmente cambiate dopo l’esperienza vissuta.

 

Oltre all’assenza della retorica familiare nel finale, stupiscono alcune scelte stilistiche citazioniste, come la morte del ragazzino dilaniato dallo squalo, impressa negli occhi di Brody nel travelling in avanti di chiara matrice hitchcockiana, che ci fa vedere il personaggio immobilizzato in spiaggia, stordito dall’orrore: il materassino distrutto produce una profonda lacerazione emotiva in Brody, irreprensibile uomo di legge che da quel momento in poi si sentirà responsabile della tragedia.

 

Prima che Spielberg riproponesse, in Incontri ravvicinati del terzo tipo, l’idea sviluppata nel corto giovanile Firelight, Lo squalo comunicava all’industria cinematografica una precisa dichiarazione d’intenti: il perfezionamento della macchina propagandistica e di marketing racchiusa in un film molto lontano dai soliti e rassicuranti stereotipi, votato alla rappresentazione di un’impresa tutta al maschile concentrata sulle singole individualità.

 

La grande libertà sul set – e nell’adattamento fatto da Carl Gottlieb del libro omonimo di Peter Benchley – ha consentito la creazione di un perfetto meccanismo di pianificazione del terrore che utilizza gli accorgimenti stilistici e strutturali della New Hollywood e, al contempo, ne elimina le derive politiche e le letture più mature, decretando la fine di un’epoca; del resto, scriveva Franco La Polla a proposito delle rivoluzioni paranoiche anni Settanta: “ogni film rimette in discussione il cinema”.

 

Lo squalo, che si discosta dalla matrice politica newhollywoodiana – bastino titoli come La conversazione o I tre giorni del Condor per esemplificare il clima da psicosi generato dall’ordigno tecnologico nei primi anni del 1970 – è, però, come Duel, una riflessione sullo squarcio provocato dagli attacchi di una “macchina perfetta”, come sostiene l’oceanografo Hooper, ai danni di un tessuto sociale composto perlopiù da everyman in cerca di riscatto o forse solo di normalità.  

 

Per concretizzare la suspense e quel perenne senso di angoscia che attanaglia Amity, Spielberg compone un grande film di regia. Nonostante abbia affermato di averlo realizzato “sacrificando lo stile al contenuto”, sa sempre dove e come piazzare la macchina da presa, il modo in cui deve essere utilizzato un primo piano – molto diversamente dall’irruzione costante dei volti in Sugarland Express – e come dosare il punto di vista di un mostro senza coscienza, che diventa, in alternanza, soggettiva che ci fa vedere con gli occhi famelici del predatore e presenza incombente, per quasi tutta la durata del film, seminascosta.

 

La regia costruisce lo spazio del thriller ad alta tensione, nell’attesa di un’apparizione ostile che indica la costante violazione di un ecosistema aperto a tutti, bagnanti e creature marine: all’inizio solo una pinna, agghiacciante metonimia del terrore, poi un vero e proprio teorema della caccia in mare aperto.