“Un film politico o populista?”, si chiede Emiliano Morreale a proposito de L’onorevole Angelina (1947) di Luigi Zampa che fruttò ad Anna Magnani, interprete principale e co-autrice della sceneggiatura con il regista, Suso Cecchi D’Amico e Piero Tellini, il premio per la migliore attrice alla Mostra di Venezia 1947 e il Nastro d’Argento.
Dopo una lunga serie di lotte e rivendicazioni che portano la popolana Angelina a diventare depositaria delle frustrazioni di tutte le donne della borgata di Pietralata e ad accarezzare il seggio in Parlamento, il finale conciliatorio può sembrare come un ritorno all’ordine, alla sottomissione all’ordine sociale esistente sorretto da precise gerarchie di classe e di genere.
Tuttavia, più che per questo finale, il film lo ricordiamo per Angelina che “baccaja proprio bene” e per l’irruenta recitazione di Anna Magnani, materialmente e simbolicamente trattenuta dagli altri personaggi durante tutto il film. Allora anche il suo ultimo discorso può essere letto attraverso il filtro dell’ironia amara e del rovesciamento che pervade tutta la narrazione (e che spesso opera nei finali di Zampa, anche quando la soluzione è ufficialmente suggellata dalla legge, come in Processo alla città e Il magistrato).
Il trattenimento fisico di Angelina non è il solo che la scrittura del film dovette fronteggiare. La storia della rivolta della protagonista contro le condizioni di vita delle classi più umili e, in particolare, delle donne, non piacque subito alla commissione di revisione preventiva che, letta la prima versione della sceneggiatura nel marzo del 1947, arrivò a scoraggiarne la realizzazione. Dopo aver preso visione della seconda stesura, la commissione appuntò in una nota per l’allora Sottosegretario Andreotti il permanere di “rilievi e obbiezioni” per il modo eccessivamente caricaturale in cui veniva presentato il marito di Angelina, Brigadiere di Pubblica Sicurezza.
A giugno, Andreotti dava il nulla osta alla realizzazione, avvertendo la produzione del possibile reato di “offesa al decoro e del prestigio” della forza pubblica. Nel settembre dello stesso anno, il film otteneva l’autorizzazione alla programmazione e veniva considerato “degno del miglior successo” per i suoi “pregi tecnici e artistici” e per l’interpretazione della protagonista. Certo, si legge nel giudizio finale, “nelle prime scene si notano alcuni elementi che a prima vista possono essere giudicati come di incitamento alla lotta di classe” ma la “bella e commovente scena di concordia e pace fra tutti” che conclude il lavoro corregge questa prospettiva.
Il discorso conclusivo di rinuncia alla politica fu dunque decisivo per sbloccare il film e per far passare tutte le lotte e le denunce di Angelina. Al contrario di giornalisti e politici che scendono nella borgata come cacciatori di esotico, la macchina da presa di Zampa ci porta a Pietralata sui titoli di testa, facendoci percepire, partendo dalla ripresa aerea del centro di Roma e continuando seguendo linee di tram e ferrovia, come lo spazio abitato da Angelina e dalle altre famiglie sia certamente periferico ma determinato dalle dinamiche politiche e sociali del centro urbano.
Lo stesso discorso finale che tanto ha soddisfatto la censura può essere invece letto come affermazione dell’indipendenza di Angelina che denuncia l’impossibilità di una donna di realizzarsi come politica in una società di maschi inetti. La scena successiva nel commissariato, dopo il riavvicinamento con il marito, ci mostra una Angelina tutt’altro che obbediente al coniuge che la donna non esita a contraddire davanti al superiore.
Ritornando verso casa, Angelina non può far a meno di far notare al marito che, come capofamiglia, non ha i soldi necessari per portare al cinema la famiglia e, nella scena conclusiva, la donna si prepara a nuove battaglie, non smettendo di essere una spina nel fianco per il marito brigadiere.