Le luci della sala si spengono. Il buio placa ogni mormorio e con esso anche l’allucinante rincorrersi di riflessioni, ragionamenti e idee contrastanti che hanno accompagnato l’approdo dell’ultimo film di Roman Polański alla 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.Il silenzio avvolge i corpi degli spettatori e isola le loro menti; ognuno resta solo con i propri pensieri, conscio del fatto che sia giunto il momento di mettere un freno temporaneo al fervore morale derivante dal mondo esterno. Quando le luci della sala si spengono bisogna saper prestare attenzione al linguaggio che per le due ore successive sarà l’unico portatore di verità: quello dello schermo.
È facile rimanere disarmati di fronte alla capacità, ribadita ad ogni occasione dal grande cinema, di saper inglobare l’anima del fruitore, rapirla e trascinarla altrove. Questo è il processo che viene innescato fin dai primi fotogrammi di L’ufficiale e la spia, quasi fosse una concretizzazione delle parole del co-produttore Luca Barbareschi, il quale in conferenza stampa esordisce esprimendo la propria volontà di lasciarsi alle spalle le polemiche, sostenendo che il festival non sia “un tribunale morale, ma una Mostra del Cinema che celebra l’arte”. E così la parola passa finalmente al film e a un Polanski che, lungi dall’idea di combattere una battaglia “contro i mulini a vento”, torna ad indossare la propria veste migliore, ricoprendo nuovamente il ruolo del Maestro in grado di stregare i nostri occhi.
Gli eventi portati in scena dal celeberrimo regista nel suo ultimo lavoro riguardano il noto "Affare Dreyfus" che sconvolse la Francia di fine Ottocento, rappresentato, tuttavia, secondo l’inedito punto di vista dell’ufficiale Georges Picquart. Anziché concentrarsi sulle estreme ed immeritate sofferenze della vittima ingiustamente accusata di tradimento, Polański costruisce il proprio film attorno ad un personaggio che fu inerte testimone della condanna inflitta al capitano Alfred Dreyfus. Una scelta non indifferente che si ripercuote su vari strati dell’opera, a partire dalla focalizzazione dello sguardo che sin dall’inizio smentisce ogni intenzione da parte dell’autore di identificarsi con la vittima. L’innocente punito senza ragioni esiste ma, nonostante la sua presenza riecheggi in ogni scena, è relegato sullo sfondo.
I riferimenti all’attualità sono presenti e talvolta clamorosamente attuali ( interrogato dallo stesso Drayfus circa le ragioni dell’accusa mossa nei suoi confronti, uno dei superiori giustifica le proprie azioni dichiarando di “separare sempre i sentimenti dal giudizio”) ma nel delineare una minuziosa ricostruzione degli accadimenti storici che segnarono la vicenda, la riflessione sui torti subiti e sul processo di ricostruzione della verità assume una portata ampia e generalizzata, non più riconducibile alle questioni personali del regista. Un percorso sconnesso e dall’esito amaro, che rinviene nell’incessante tentativo di ricerca della giustizia il proprio centro tematico, nonché la forza propulsiva dell’azione.
Ancorando il racconto allo sguardo dell’ufficiale Picquard, ai movimenti scaturiti dalle sue scoperte una volta promosso a capo della Sezione di statistica, il tono del film vira ben presto verso le tese atmosfere del thriller politico, spalancando le porte al tocco inconfondibile del regista, che nella cupezza di questo clima trova un terreno fertile su cui sciogliere le briglie della propria sensibilità artistica. Attraverso una messa in scena ancora una volta impeccabile nel ricreare l’alone di un contesto storico tardo ottocentesco, Polański porta sullo schermo la strenua volontà di un uomo integerrimo che intraprende una lotta impari contro il potere mistificatore dell’autorità. Uno stoico Jean Dujardin si fa portatore della tenacia di un personaggio che probabilmente avrebbe meritato una maggiore carica introspettiva, sacrificata dall’autore in virtù della chiarezza fattuale che vuole quasi sempre Picquard in scena nei suoi panni istituzionali, lasciando perlopiù l’uomo celato dalla divisa. Una scelta che d’altro canto non va ad intaccare un meccanismo narrativo pressoché impeccabile, in cui ad emergere sono i tratti marcati che imbrigliano i personaggi nei rispettivi ruoli per poi portarli allo scontro.
Un’esposizione limpida e raffinata, sinonimo di un talento inscalfibile tanto dal passare del tempo quanto dalle contingenze della vita. Un’opera che pur non raggiungendo le vette (forse irripetibili agli occhi nostalgici degli estimatori) dei suoi massimi capolavori, conferma la forza di un marchio autoriale ancora solido ed energico. Ed è questo che oggi vogliamo celebrare, qui al buio della sala, dove le discordanti voci esterne giungono con minore aggressività. Qui a regnare incontrastata è la magia della luce che proiettata sullo schermo si fa creatrice di mondi. Una magia che pochi nella storia del cinema hanno saputo praticare con un’eleganza, una ferocia e un’autenticità paragonabili a quelle di Roman Polański.