Due date, 1951 e 1971. Una, l’anno di ambientazione di L’ultimo spettacolo, l’altra, l’anno di uscita nelle sale. Nel mezzo, uno dei più grandi cambiamenti nella storia dell’industria cinematografica americana, la fine della Hollywood classica e l’inizio della New Hollywood. Una crisi e poi una reazione. Una rivoluzione. Certo, come ricordava Franco La Polla in Stili americani, si diceva che la New Hollywood "durò lo spazio di un mattino", anche perché ci volle poco perché nuovi assetti produttivi si consolidassero, ma senza dubbio fu un periodo prolifico e rivoluzionario, pieno di grandi, seppur piccoli, film; e L’ultimo spettacolo, secondo lungo diretto da Peter Bogdanovich, non può che essere annoverato tra questi.
Siamo ad Anarene, una piccola cittadina texana, è il 1951 e un gruppo di giovani vaga a vuoto tra sesso e cazzotti, alle soglie di un’età adulta che per loro coinciderà con la Guerra di Corea. La provincia americana di Bogdanovich è vuota come una grande bolla, dove il vento rimbomba in maniera assordante, mentre a risuonare è tutta la disillusione e l’amarezza di una generazione abbandonata a sé, incastrata tra due guerre (Seconda guerra mondiale e Corea), incapace di ribellarsi, a differenza di come invece, nell’anno di uscita del film, stavano facendo i giovani dell’America degli anni Settanta.
Innanzitutto, L’ultimo spettacolo, come la maggior parte del cinema new-hollywoodiano, abbandonando il target generalista, ha saputo essere il banco di prova per una nuova generazione di pubblico (ovvero i giovani, meno “colpiti” dall’avvento della tv), di registi come Bogdanovich (al suo secondo film), di scrittori come Larry McMurtry e di attori come il giovanissimo Jeff Bridges. Un banco di prova superato se si pensa che Ben Johnson e Cloris Leachmann (recentemente scomparsa) ricevettero due Oscar (su nove nomination per il film), rispettivamente come miglior attore e miglior attrice non protagonista. Segno di una progressiva e ormai consolidata legittimazione da parte dell’industria.
Era una nuova generazione, un nuovo cinema. Violento, crudo, disilluso. Letteralmente una nuova Hollywood, giovane, rivoluzionaria, capace di trattare nuovi temi, nuovi generi e nuovi modelli divistici; in un continuo equilibrio tra tradizione e innovazione. Un cinema che guardava al futuro, ma non mancava mai di voltarsi al recente passato, alla costa est del New American Cinema di inizio anni 60, al Cassavetes di Ombre (uscito nel 1958 con straordinario anticipo sui tempi), ma anche all’Europa della Nouvelle Vague o del Neorealismo italiano (seppur di nicchia, di grande successo negli Stati Uniti).
L’ultimo spettacolo è forse il film che più di tutti guarda ai decenni passati ed è, forse, la parentesi più nostalgica della New Hollywood. Anarene sembra una cittadina fatta esclusivamente di silenzi e solitudini, ma c’è un luogo-perno, oltre al bar, mimetizzato nella decadenza dell’intera provincia: un cinema in disuso. Ed è proprio intorno a questa sala che si costruisce la dimensione più malinconica del film, quella più cinefila e autoriflessiva, che in qualche modo rappresenta alla perfezione le spinte di quegli anni a cavallo tra l’intellettualismo di un certo cinema d’autore e l’anti-intellettualismo di un senso nostalgico nei confronti della classicità. "L’opera di un Truffaut passato alla scuola di John Ford", diceva il critico italiano Tullio Kezich.
Da un lato c’è l’intellettualismo di un’opera concettuale, piena di riferimenti meta-cinematografici, dai toni realistici e contemplativi, investiti di quel desiderio di assenza narrativa di Zavattiniana memoria. Dall’altro lato, invece, c’è l’anti-intellettualismo di un autore che ama il cinema classico, che lo inserisce in tutti i modi possibili – Il fiume rosso di Hawks, per esempio, è l’ultimo spettacolo in programma prima della chiusura della sala, per una proiezione che ha tutte le sembianze di un nostalgico rituale funebre – che guarda con ammirazione a una certa tradizione, così come facevano i “giovani turchi” della politique des auteurs. Bogdanovich, infatti, viene dalla critica e, insieme a Andrew Sarris, fu uno dei principali sostenitori e “applicatori” della politique, rinonimata negli Stati Uniti auteur theory.
Visto oggi, dopo cinquant’anni e un sequel (Texasville uscito nel 1990), L’ultimo spettacolo rimane uno dei film più significativi del cinema americano della prima metà degli anni Settanta. Uno dei più simbolici nel restituire lo spirito di un periodo nel quale il termine “Hollywood” e il termine “art” (nella sua accezione opposta a “entertainment”) non sono mai stai così vicini. Un film sul venir meno della sala e dello stare insieme (oggi attualissimo), raccontato però con distacco storico malinconico, con gli occhi di quel cinema che, tuttavia, le sale le stava facendo sopravvivere.